Pierfranco Malfettani
Questa è una piccola storia. La storia di una piccola nave e dei suoi dodici marinai. Dodici uomini andati a fondo con la loro piccola nave, in un lontano giorno di sessantadue anni fa, nel porto di Genova. Pochi conoscono la sua storia, la storia della Nave «Landi» è rimasta per lungo tempo sepolta tra le pieghe del silenzio, che sa essere profondo e scuro come il mare, ma che, come il mare, sa raccontare storie agli uomini di tutti i tempi.
La goletta «Antonio Landi» è una pacifica nave da carico messa in mare dall'armatore savonese Carlo Landi nel 1919. Svolge il suo semplice e proficuo lavoro di trasporto merci lungo le coste nazionali per una ventina d'anni, come un robusto giovanotto qualsiasi. Con lo scoppio della guerra nel '40, la pacifica nave ricade negli interessi delle autorità militari, requisita con altre piccole unità della sua stazza e destinata ad un compito altrettanto semplice: difesa foranea. Si tratta di navigare ad un certo raggio dalla costa genovese con lo scopo di avvistare navi, sommergibili o aerei nemici in arrivo e allertare le difese a terra. La Nave «Landi», militarizzata, viene ribattezzata impersonalmente V.106, imbarcando con ogni probabilità lo stesso equipaggio civile di prima della guerra. Per loro una monotona routine, resa più avventurosa dalla presenza a bordo di qualche mitragliatrice.
Doveva essere una nave veramente ben fatta la «Landi». Si, perchè la Marina Militare la fa ancora più bella. La porta a Spezia e la riveste con costosi impianti di fabbricazione tedesca, apparecchiature belliche che servono per ascoltare il traffico sottomarino e addestrare i giovani marinai alla lotta contro i battelli di Sua Maestà, battelli che si fanno ogni giorno più pericolosi, affondando navi su navi, in quella colossale battaglia che fu ingaggiata per garantire il traffico da e per la Libia, allora teatro di guerra fra gli eserciti italo-tedeschi e britannici.
È il 1943. La guerra svolta sempre più a sfavore per l'Italia, schiacciata dalla potenza incalcolabile delle forze anglo-americane. Quando la flotta italiana, alzando pennello nero, si consegna a Malta dopo l'armistizio dell'8 settembre, la piccola Nave «Landi», la piccola nave scuola antisommergibili resta nella base spezzina, dimenticata dagli eventi e dai suoi giovani alunni, in fuga verso casa con l'abito borghese.
Tardi. Troppo tardi per partecipare alla guerra, ma c'è ancora chi spera nella vittoria. I tedeschi lasciano che la nuova Marina repubblicana, la Marina «nera» di Salò, armi solo piccoli scafi, con equipaggi e bandiera italiani, ma la situazione è oltremodo sconfortante. Con grandi sacrifici si trovano gli uomini, giovani di leva o maturi richiamati o ragazzi meri- dionali tagliati fuori dagli eventi. Si trovano le armi da imbarcare, cannoni e mitragliere, scandagli e bombe. Si trova il tempo per potenziare al meglio la piccola Nave «Landi» e per farla uscire finalmente, nuovamente in mare. Si costeggia, si fa la spola tra Spezia e Genova e tra Genova e Savona, portando munizioni, scortando le motozattere e le KT tedesche, sfilando nel buio tra le mine, di notte per evitare gli aerei e le motovedette inglesi. C'è battaglia, c'è l'angoscia e il rischio davanti alla porta di casa. La Nave «Landi», che ora ha il nuovo nome di C.S.13, fa, come si dice, il proprio dovere, come qualunque semplice soldato, e combatte, tira persino giù un aereo nemico. Perchè ora, la piccola goletta è diventata un «Caccia Sommergibili», l'ultimo, della Marina del Nord.
Sono giovani i marinai del C.S.13 «Landi», giovani e simpatici. Si conoscono tutti e quelli di Genova sono vicini di casa, vicini di vicolo, sbarcano per portare a casa un piccolo tesoro: mezza gavetta di pasta, il «culo» di un salame, qualche sigaretta. Come faceva Rinaldo, che abitava in Vico della Croce Bianca. Come faceva Giuseppe, di Vico Monte di Pietà. Il primo era già stato a Pola ed era stato abile a non finire sui vagoni tedeschi, a non cadere in prigionia. Tornato in famiglia, si ripresentò in Marina e sul «Landi» faceva la «bella vita»: era un furiere. Il secondo, operaio «ansaldino», aveva il papà prigioniero in Africa. Rispose alla leva come tanti, semplicemente per adempiere ad un dovere.
Vennero gli aerei quel giorno, quel maledetto 4 settembre del 1944. E sganciarono su Genova tonnellate e tonnellate di bombe in quello che fu il più grande, il più distruttivo bombardamento che la città dovette subire nella sua storia. 144 aerei americani (Group 449 e 450) che «lavorarono» dalle 12.50 alle 14.10 distruggendo case, monumenti, industrie, affondando navi e uccidendo oltre 300 persone.
Il C.S.13, ormeggiato al Molo Giano, recepisce l'allarme aereo e fa sbarcare l'equipaggio, che si rifugia inizialmente nelle gallerie scavate nella roccia, fin dal mattino. Ma l'attesa è lunga, non fa per dei militari, non fa per dei giovani. E ricominciano a salire sulla piccola nave, attraverso gli scalandroni. Non può tradire la vecchia nave, ne ha viste tante, passerà anche questa. E poi gli aerei non si vedono, è già successo che l'allarme suoni per niente.
Quando le prime bombe, fischiando, piovono sul porto, è ormai troppo tardi. Gigantesche colonne d'acqua, esplosioni devastanti che scagliano uomini e cose a centinaia di metri di distanza. Per i marinai del «Landi» è la fine. La nave stessa, la piccola, robusta nave affonda mentre il suo giovane equipaggio perde la vita. Dodici ragazzi che non torneranno più. Come Rinaldo, che fu ritrovato morto all'Ospedale di Sampierdarena, portato pietosamente chissà da chi. Come Giuseppe, il cui povero corpo non verrà mai più restituito dal mare. Come Ugo il siciliano, Alvaro il romano, Pietro il bresciano, Vittorio il carrarino...
Questa è la piccola storia di una piccola nave.
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