«L’età dell’innocenza» con rito ambrosiano

nostro inviato a Venezia

Se i comunisti vanno in orbita solo al cinema, non è colpa loro e nemmeno della nostalgia canaglia. È che da quando le ideologie sono morte, ognuno si arrangia come può e non è detto che la vita di sezione o di parrocchia, o come nel caso del Pci di un tempo remoto e trapassato, di sezioni che erano parrocchie, aiutasse a diventare grandi. L’adolescenza all’epoca delle ideologie aveva gli stessi rossori e gli stessi tremori di quella nichilista contemporanea nella quale per ogni genitore a un certo punto i figli diventano degli alieni...
Cosmonauta, il film d’esordio di Susanna Nicchiarelli in concorso nella sezione «Controcampo italiano», era diventato un caso ancor prima di essere visto, grazie a un trailer di presentazione esemplare nella sua icasticità. C’era una bambina, vestita da prima comunione, che chiusa dentro al bagno di casa, così rispondeva alla madre che la pregava di aprire e di tornare in chiesa: «Io là non ci torno perché sono comunista». In Italia c’è tutta una retorica sui bambini, sui comunisti che mangiano i bambini, sui comunisti che non mangiano i bambini, sul comunismo ateo e scomunicato e sui comunisti che si sposavano con la benedizione del prete, su Peppone e Don Camillo e sul compromesso storico, e in una mostra del cinema dove Baarìa raccontava, fra l’altro, la storia di un povero comunista di Sicilia e Il grande sogno quella di un povero celerino di Puglia convertitosi alla contestazione del ’68, ci poteva anche essere spazio per la piccola pioniera devota all’Urss e alle conquiste dello spazio... Fortunatamente non è così, non c’è la propaganda né la retorica di quando eravamo poveri ma belli, anche se trinariciuti.
Nata nel '75, Susanna Nicchiarelli aveva 14 anni quando è crollato il Muro di Berlino e questo l’ha aiutata: non avendo rimpianti, non ha nemmeno rimorsi e può avvicinarsi all’Italia di mezzo secolo fa con la leggerezza che è propria della distanza. Così Cosmonauta è il racconto di un percorso di formazione: c’è una ragazzina, Luciana, orfana di padre, con un fratello più grande epilettico e che vive in un mondo tutto suo dove lo Sputnik e il comunismo spaziale gli permettono di evadere dalla propria emarginazione (ha gli occhiali, è grassoccio, è malato, le sue coetanee ne hanno un po’ paura...), una madre che si risposa, un patrigno che ovviamente la ragazzina odia. Appartenere a un gruppo, avere dei punti di riferimento certi, sembra a Luciana l’unica strada che la metta al riparo da se stessa, fragilità, insicurezze e odii, e rinsaldi in qualche modo il legame con quel genitore scomparso da troppo tempo e da tutti ricordato come «un vero comunista».
Ambientato in una borgata romana, quella del Trullo, il film si avvale di un cast giovanile, al quale la stessa regista, Claudia Pandolfi e Sergio Rubini fanno un po’ da chioccia, esemplare nella sua normalità bruttina, rappresentativa di un’Italia dove il look non era ancora predominante e un figlio o una figlia bene in carne un segno di salute.
Proprio perché, come dice Susanna Nicchiarelli, «in Cosmonauta non c’è e non ci deve essere nostalgia», le stesse canzoni d’epoca, da Cuore a Cuore matto, da Nessuno mi può giudicare a Io che amo solo te, sono state riarrangiate, a meglio sottolineare una rivisitazione lontana da ogni celebrazione. Il risultato, per la verità, è discutibile, ma ci può anche stare.
Abbastanza fedele nella ricostruzione di un’epoca, Cosmonauta non è naturalmente un film storico: non ne ha né le pretese né il fine.

È, dice ancora la Nicchiarelli «una specie di favola senza tempo dove i sogni di conquista dei cosmonauti (presenti con i loro volti e i loro sorrisi nel montaggio del materiale di repertorio) si incrociano con quelli dei ragazzi, ricreando quell’atmosfera di fascinazione e d’incanto tipica degli anni della adolescenza».
Per crescere, Luciana impara alla fine a fare i conti con la sconfitta, invece di crogiolarsi nella propria diversità. Anche perché nello spazio intanto hanno vinto gli americani.

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