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L’eterna lotta fra bulli e pupe Denis Johnson si butta sul pulp

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L’eterna lotta fra bulli e pupe Denis Johnson si butta sul pulp

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Simone Cattaneo, poeta metallico, crudo ed estremo (i suoi grandi libri, Nome e soprannome e Made in Italy, li ha stampati Atelier Edizioni), morto tragicamente lo scorso anno, uno che poteva dire «di aver razionato l’orizzonte/ senza alcuna misericordia», uno che sapeva un mucchio di cose sulla letteratura statunitense, direbbe «questa volta Denis Johnson ha cannato».
Parto dal principio, cioè da dieci anni fa, quando tra le mascelle di Simone comincia a ronzare come un grumo di carne cruda il nome di Denis Johnson: «Devi leggere - mi diceva - Jesus' son, lo ha appena pubblicato Einaudi, è un capolavoro tragico». Simone non sbagliava un colpo, adorava Martin Scorsese (quello degli esordi, di Mean Streets e di Taxi Driver) e Fratelli di Abel Ferrara. «Ecco, Denis Johnson è di quella pasta lì. Soprattutto è un poeta di razza», sosteneva Simone. Ovviamente delle poesie di un poeta di razza non c'è traccia in Italia, Simone se le traduceva da sé, voi fate altrettanto, basta digitare sul motorino di ricerca «Denis Johnson» e «Poems».
Poi, dopo Jesus’ son, più nulla a parte i reportage strepitosi di Cronache anarchiche (Alet, 2005, da leggere). Denis Johnson, classe 1949, tre mogli e tre figli, una bella falange di premi letterari in bacheca, negli States è una star, è il nuovo prodigio americano, in Italia ci accorgiamo di lui soltanto nel 2007, quando ha quasi sessant’anni, perché vince il National Book Award con Albero di fumo, prontamente stampato da Mondadori nel 2008. Il romanzo, 700 pagine e passa, passa per il capolavoro di Denis, passa per il Grande Romanzo Americano sulla guerra in Vietnam, fa il verso ad Apocalypse Now, c’è in mezzo un po’ de Il cacciatore di Michael Cimino. È anche un po’ prolisso e caotico ma colmo di clamorose esplosioni poetiche. Soprattutto, è un romanzo «morale», alto, aguzzo. Con soldati pazzi che consultano il Vangelo come un oracolo mentre «buttavano bombe a mano dentro le capanne amputando braccia e gambe a contadini ignoranti, salvavano cuccioli affamati e se li portavano a casa, in Mississippi, nascosti sotto la camicia, incendiavano interi villaggi e violentavano bambine»; uomini nudi pieni di domande verticali, come questa: «Vogliamo nasconderci dalla verità e negare che Dio, nella Sua eterna benevolenza, abbia destinato alla salvezza coloro che Gli riuscivano graditi, scartando tutti gli altri?».
Il libro ebbe un certo successo e gli editori italiani dovrebbero forse pubblicare o ripubblicare i romanzi precedenti, chessò, Angels (Angeli, Feltrinelli 1986), Fiskadoro (Feltrinelli, 1988), Resuscitation of a Hanged Man, The Stars at Noon. Invece no, ti scodellano l’ultimo romanzo, pubblicato l’anno scorso, che nasce come uno «scherzo»: è uscito a puntate su Playboy ed è presentato come una parodia «di giganti del thriller, come Dashiell Hammett e Raymond Chandler». In effetti, altro che Nessuno si muova (così s’intitola il romanzo; Mondadori, pagg. 178, Euro 18,50), a me leggendolo prudevano le mani, migravo dalla sala alla cucina trangugiando orzata e caffè per eccitarmi un po’, avrebbero fatto prima a chiamarlo Nessun dorma. Il fatto è che la trama dovrebbe travolgere e traviare, ci sono dei soldi in ballo, un tizio molto cattivo che è stato ferito alla gamba e un altro che si chiude per un po’ nella stanza di un motel, ci sono delle sparatorie, e qualche sprazzo di violenza.
L’unico eccitante del libro però lo concedono le donzelle, la messicana Anita in testa, in seconda battuta la devota infermiera Mary, ma non si va oltre la solita sfacciata ovvietà sessuale: «Si rilassò sul divano mentre lei gli s'inginocchiava fra le gambe divaricate e cominciava a muovere la testa su e giù». Il potenziale ironico, si fa per dire, invece esplode quando il cattivone sbraita, «quello che non capisco è perché, quando le Torri Gemelle sono venute giù, non abbiamo buttato una bomba atomica su quei bastardi del cazzo e vetrificato tutta la sabbia del deserto musulmano», sai che risate.
Il problema è quello della mela di Cézanne, che «ha deciso di non accettare per dato nessun metodo pittorico tradizionale, ha voluto ricominciare daccapo, come se non fosse esistita pittura prima di lui» (E. H. Gombrich). Finché i romanzieri americani perderanno le loro energie imitando la realtà (cioè disegnando la mela così com’è, con ottusa minuzia), non solo continueranno a scrivere romanzi frustranti, ma dimostreranno di non aver compreso la granata allegorica (e profetica) che è Moby Dick, figuriamoci se sanno posizionarsi nell’orizzonte squartato e squarciante di Beckett.

Intanto la storia insegna che i romanzi di Ernest Hemingway (il paladino del «parla come mangi») sono oggetti di modernariato, roba da matusalemme, mentre Melville è baldo e vispo come un pupo.

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