L’INCONTRO GUIDO PODESTÀ

Podestà è una persona gradevolissima, con una faccia perbene, modi garbati, voce sommessa, un passato professionale di tutto rispetto. Uno a cui affideresti i tuoi bambini, la tua casa, la tua mamma, il tuo futuro, perché quindi non affidargli la presidenza della Provincia. Podestà ha avuto due mogli, Lella, che gli ha dato Marco e Francesca e Noevia che è la mamma di Arianna e Annasole. Laureato in architettura, con una passione per i progetti di case e residenze, è nato a Milano nel 1947, «in una meravigliosa famiglia di sette fra fratelli e sorelle». Per Noevia, il presidente prova un grande amore. «Averla al mio fianco è stata la mia forza». Raccontano che nel periodo elettorale, quando suo marito lottava per togliere di sotto il sedere la poltrona a Penati, Noevia si sia fatta in quattro per aiutarlo, alle cene arringava gli invitati, nelle piazze dove lui spiegava alla folla i progetti di lavoro, lei aggiungeva mille particolari e chiunque la incontrasse trovava in questa donna innamorata e volonterosa, una instancabile biografa. Ci incontriamo a palazzo Isimbardi a fine giornata, nei lunghi e cupi corridoi c’è un grande silenzio, Podestà si fa attendere solo pochi minuti e di questo comunque si scuserà subito.
«Cosa vuole sapere da me?», mi chiede cortese il presidente.
C’è una cosa che mi incuriosisce e alla quale ho sempre pensato nei periodi elettorali. Dopo che due contendenti se ne sono dette di tutti i colori durante la campagna, cosa succede a fine giochi? Per esempio, fra lei e Penati quando vi incontrate, cosa vi dite, caro Podestà, caro Penati?
«Caro no. Caro non ce lo diciamo. Usiamo il buon senso e la buona educazione, si fa finta di niente e si cerca di dialogare come gli impegni impongono. Diciamo che dopo le armi pesanti della campagna elettorale, si torna al fioretto».
Però lei non si è mai dichiarato entusiasta di Penati.
«Penati è un uomo in gamba, ha le sue idee e come è giusto le persegue, ma non posso dire che mi abbia lasciato una buona eredità. Expo chiede più fondi? Ma noi potremmo avere un buco da 20 milioni di euro dalla passata gestione. Bisogna conciliare le esigenze di tutti».
Ho l’impressione che voi ai vertici di Milano abbiate una convivenza un po’ burrascosa. Qualche scontro fra lei e la Moratti c’è stato, tutti la descrivete come una donna di grandi capacità lavorative, intelligente, volitiva, ma poi fra le righe sento tanti mugugni. Non ho capito se è solo una donna difficile o una grande rompiscatole.
«Rompiscatole? Ma per carità. È una donna a sangue freddo, caparbia, un po’ chiusa, ma con la quale si va d’accordo benissimo. Gli scontri a proposito del caso Ligresti, si sono subito chiariti e tutto è tornato al dialogo di sempre. Il sindaco sosteneva che il gruppo Ligresti dovesse sottostare alle nuove leggi del Piano di governo del territorio e sembrava addirittura che io volessi il contrario perché chiedevo che questa faccenda si chiudesse al più presto. Sono sei anni che questo gruppo aspetta il via libera per tre progetti abitativi, che naturalmente devono rispettare le leggi vigenti, questo non vuol dire che non abbiano diritto a una risposta. Hanno minacciato addirittura il commissariamento del Comune, cosa che sarebbe a dir poco sgradevole, quindi mi sto adoperando per un sollecito che porti alla parola fine. In questo senso ho già scritto una lettera».
Mi diceva il Prefetto qualche giorno fa, che ci sono troppe persone che mettono il becco nelle decisioni importanti e questo allunga i tempi e rende l’atmosfera incandescente. Era meglio quando a decidere era solo lo Stato. È d’accordo?
«Diciamo che una pluralità di consensi dà sempre più garanzie. Ma certo che la pluralità deve essere contenuta altrimenti è molto difficile mettere d’accordo teste diverse, politiche diverse, progetti diversi, aspettative diverse. Comunque la situazione è questa e a questa situazione dobbiamo adattarci».
Presidente, parliamo di immigrazione, respingimenti, case popolari che vengono assegnate in eguale misura agli italiani e agli stranieri. La sua opinione?
«Ben vengano gli immigrati, abbiamo bisogno di forza lavoro, l’importante è non esagerare. Non mi sembra un concetto astruso. Una cosa è spalancare le porte a chiunque compresi i clandestini che purtroppo e troppo spesso finiscono col delinquere, perché non hanno casa, non hanno lavoro, non hanno prospettive quindi... e un’altra cosa è contenere il numero per poter dare a questi stranieri tutto l’aiuto possibile. Sul fatto delle case popolari e di altro, dove gli immigrati sembrano a volte avere addirittura la precedenza sugli italiani, questo tipo di generosità non la condivido. C’è tanta nostra gente che è povera, che ha pensioni da fame, che vive in due locali magari senza riscaldamento, che non può far studiare i figli, eppure paga le tasse e rispetta le regole, cosa può pensare della distribuzione delle case popolari dove un terzo e spesso anche più viene assegnato agli stranieri?».
Mi dicono presidente che lei è innamorato di Berlusconi almeno quanto di sua moglie.
«Se per innamorato lei intende ammirato, riconoscente, affascinato dalla sua personalità davvero fuori del comune, allora sì, diciamola come dice lei. Io ho conosciuto Berlusconi negli Anni 70, ho lavorato per lui alla Edilnord dove nel giro di pochi anni sono diventato amministratore delegato, quando poi Silvio è sceso in campo in politica ho condiviso subito i suoi ideali per un’Italia migliore e per la difesa delle persone più deboli. Sono stato per anni al Parlamento europeo diventandone nel 2004 vicepresidente. Ora sono ai vertici della Provincia. È vero che Berlusconi mi aveva promesso un ministero che si occupasse del territorio e delle case da costruire per tutti, anche per quelli con pochissime possibilità, promessa che per ora non è stata mantenuta, ma non gliene voglio, per me è stato un privilegio e una scuola stargli accanto per più di trent’anni».
Mi racconti com’è, ma mi dica la verità, senza suoni di violini.
«Berlusconi ha un ampio raggio d’azione, si occupa di tutto e di tutti senza dimenticare anche i più piccoli particolari. Niente è lasciato al caso, che si tratti di una cosa importante o di una cosa minima. Mi è capitato di vederlo discutere con i suoi su un progetto fino a tarda notte, lasciarlo che sembrava convinto e ritrovarlo la mattina che aveva aggiunto, tolto, corretto, ampliato la bozza, sulla quale, era chiaro, ci aveva lavorato buona parte della notte. Basta l’esempio dell’Aquila, non si è accontentato di consegnare le case ai terremotati in tempi da record, ma ha voluto che all’interno ci fosse tutto l’occorrente per viverci bene e senza disagi. Ha persino chiesto che ci fossero i fiori. Lei dice che non vuole sentire suoni di violini, ma mi creda, è difficile parlare di Berlusconi in termini normali. Sono nel mondo del lavoro da quarant’anni, ma non ho mai incontrato uno come lui, generoso, perspicace, intuitivo, coraggioso, con una volontà incrollabile, una resistenza sul lavoro da far schiattare tutti e una capacità di affascinare, di travolgere, di convincere che non ha eguali. Chi sarebbe uscito vivo e più caricato che mai dal tiro a segno a cui è stato sottoposto, senza ritegno e senza pietà? Vorrei fare anch’io una domanda alla gente, se cadesse Berlusconi chi ci mettereste in questo momento alla presidenza del Consiglio? Fatemi un nome».


Una volta a una cena, Confalonieri, parlando di Silvio mi aveva detto: «Lei non ci crederà, come non ci crederà nessuno, ma le assicuro che non sono poche le volte che Berlusconi mette mano al portafoglio per il suo Paese». Che faccio presidente Podestà, ci credo?
«Ci creda».

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