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L’ultimo affare dei clan: le cave per l’edilizia

MilanoOcchio alle cave: parola di Roberto Maroni, ministro degli Interni. Il 24 giugno scorso, a meno di un mese della gigantesca retata contro gli uomini e gli affari della ’ndrangheta al nord, Maroni in una circolare riservata ai prefetti di tutta Italia aveva lanciato un input preciso. Tenete d’occhio le cave, perché nell’economia mafiosa giocano un ruolo decisivo. Maroni, verosimilmente, parlava a ragion veduta. Perché già da alcune settimane la Procura milanese aveva fatto partire le richieste di cattura destinate a venire eseguite l'altro ieri. E tra l’imponente materiale raccolto durante l’indagine, ci sono documenti che raccontano come proprio sul controllo delle cave si regga il dominio malavitoso su settori sempre più vasti dell’edilizia.
Il motivo è evidente. Le cave non sono solo depositi da svuotare. Dopo che sono state svuotate, sono giganteschi buchi da riempire. Discariche da imbottire di rifiuti, regolari o no, pericolosi o meno. Ma soprattutto di macerie. Per ogni cantiere che si apre, serve una discarica da utilizzare. E i camion delle aziende di movimento terra legate ai clan la fanno da padrone, perché hanno il monopolio delle cave
Ci sono, agli atti dell’indagine, documenti espliciti. Tra questi, una conversazione di Ivano Perego - imprenditore dal nome che più lombardo non si può, eppure legato mani e piedi agli interessi dei capibastone calabresi al nord - in cui si spiega chiaramente che solo i camion degli «amici» possono andare a scaricare in buona parte delle cave disponibili. Così, utilizzare i camion dei clan diventa una scelta obbligata. Si capisce perché, senza bisogno di ricorrere alla dinamite, in quasi tutti i cantieri aperti in Lombardia - da quelli della Tav ai nuovi grattacieli di Milano - a lavorare erano i camion targati ’ndrangheta. E si capisce come intorno all’autorizzazione di queste moderne miniere d’oro si muovano manovre economiche, padrinaggi politici, sospetti di corruzione.
«Si tratta di attività - aveva scritto Maroni nella sua circolare ai prefetti - a valle della fase di aggiudicazione degli appalti ma particolarmente esposte al rischio di infiltrazione da parte delle cosche locali che, soprattutto in determinate zone, esercitano di fatto una specie di monopolio, in ciò condizionando tutti gli aspetti dell'approvvigionamento dei materiali». Per questo il ministero degli Interni aveva indicato ai prefetti un cambio di strategie: smettiamo di andare a rincorrere le aziende sospette, creiamo invece una «white list», una lista delle aziende pulite, e consentiamo solo a loro di partecipare agli appalti e ai lavori.
D’altronde proprio l’inchiesta milanese è la dimostrazione di quanto il vecchio sistema delle «certificazioni antimafia» abbia sostanzialmente fallito. Sull’onda della crisi economica, è diventato sempre più facile per i capitali mafiosi andarsi a proporre come unica ancora di salvezza per aziende sull’orlo del tracollo. Se l’affare va in porto, a rappresentare l’azienda nei contratti e nelle gare d’appalto continuano a essere gli amministratori precedenti, le «facce pulite», ma dietro di loro a dettare legge sono i soldi dei clan. Spesso funziona.

In alcune occasioni, racconta la stessa ordinanza, la scalata invece non è andata in porto: come quando Andrea Pavone, il brillante factotum dei clan, aveva cercato di mettere le mani sul cantiere per il parcheggio di Porta Garibaldi, una enorme e scandalosa «incompiuta». La terra scavata da quella voragine, i camion dei padrini avrebbero sicuramente saputo dove andarla a scaricare.

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