«Lo scenario di un romanzo che nessuno scriverà mai» è la definizione che Julien Green dà a Parigi nel libro in cui, ottantenne, decise di prenderne atto e insieme di trovare una strada alternativa per raccontarla in Parigi (Adelphi, pagg. 117, euro 12, traduzione di Marina Karam). Da romanziere che aveva fatto dello scavo dell'animo umano, del suo mistero, se vogliamo, la ragion d'essere della sua opera, l'idea di mettersi in concorrenza con l'anima di quella città era sempre stato per lui un motivo di ansia. «La somma di tutti i segreti che racchiude, l'enorme spreco di situazioni, di parole, di coups de théâtre, di personaggi, di messinscene» lo stimolava e insieme lo atterriva: «Copiare non è possibile. Copiano solo gli incapaci e gli sciocchi. No, bisogna fare altrettanto bene, se si può, con i propri mezzi. Comincia quindi lo strano supplizio della pagina bianca nella quale occorre aprire una finestra che non sia quella che ho visto poco fa, ma che sprigioni una verità altrettanto imperiosa».
I capolavori di Green, Adriana Mesurat, Leviatan, sono romanzi da Francia profonda, l'eterna provincia francese dove non succede mai nulla e quindi tutto è possibile, dove le esistenze si consumano nell'attesa di un cambiamento che quando si manifesta è sempre e solo distruttivo. Anche la natura è matrigna, nella sua indifferenza, e le piccole città sono nidi di vipere dove ogni parola, ogni incontro, ogni pettegolezzo ha un che di velenoso e quindi di mortale.
Lì, in quel mondo, Green era a suo agio, perché niente si interponeva fra lui e la sua creazione, mentre Parigi, le strade, le piazze, i monumenti, i richiami stessi prodotti da un profumo, un sapore, avevano una loro vita propria, era pressoché impossibile non tenerne conto: «Parigi lascia il segno su tutto ciò che le appartiene (...). Il cuore di un vero parigino batterà più in fretta, quando è lontano da Parigi, al ricordo di certi vasi di fiori sul davanzale di una finestra o di un ritornello popolare che il garzone del macellaio va fischiando in bicicletta. Nel bene e nel male, ciò che esce dalle mani di Parigi è Parigi, che sia una lettera, un pezzo di pane, un paio di scarpe o una poesia. Ciò che diamo al mondo non l'abbiamo copiato da nessuno; è nostro; possono prendercelo, possono rubarcelo, ma imitarlo no».
Più che «lo scenario di un romanzo», Green dovette alla fine accettare l'idea che Parigi era il romanzo in sé, non tanto «una somma di tutti i segni che racchiude», ma la loro essenza, un distillato, per certi versi, ma soprattutto un'immagine, più che una psicologia: «I poeti hanno nel cuore la visione tragica dei loro desideri. I pittori impressionisti ci hanno mostrato una città di una serenità radiosa, una città leggera anche sotto un cielo temporalesco (...). Non vedevano questo paesaggio cupo, facevano le ombre con i colori chiari e guardavano come bambini i giardini, gli acquazzoni e le vie animate, e sotto le grandi nubi bianche che attraversavano i loro cieli da un capo all'altro ci restituiscono una Parigi felice, la città della luce».
Il libro è corredato da una serie di fotografie, tutte degli anni fra le due guerre, alcune con la Senna in piena e i suoi ponti. Quest'ultime e uno scorcio di rue Beethoven, rimandano al romanzo parigino Épaves (Relitti), scritto da Green proprio in quegli anni, quando ancora si sforzava di fare con Parigi quello che gli era riuscito con la provincia: uno sfondo, più che uno scenario. Relitti fluttua, è il caso di dire, intorno ai sensi di colpa del suo protagonista che ha visto annegare una ragazza nella Senna e non ha fatto nulla per tentare di salvarla. Nato nel 1900, morto a tardissima età, quasi centenario, nel 1998, da quell'epoca riprodotta nelle immagini prima citate, lo scrittore in realtà non se ne andò mai e la Senna ne rimase per sempre l'immagine più emblematica: «La Senna in piena, di un verde giallastro, pesante, maestosa, copre entrambi gli argini, e le arcate dei ponti sembrano come appiattirsi. È minacciosa, altera. In quei momenti la trovo magica, piena di collera, una collera regale». E ancora: «Sono la strada che attraversa Parigi (...): il vostro tempo è il mio spazio. La mia memoria è un vasto caleidoscopio in cui ritroverai tutto ciò che ha fatto la storia del tuo secolo (...): Rimarrò sempre al mio posto invisibile (...). Serbo i segreti dei suicidi e se, come gli altri, vuoi sapere cosa davvero penso di Parigi, ti consiglio di guardare con il cuore il sorriso misterioso della sconosciuta della Senna».
Nel suo rapporto d'amore con la capitale francese, il 1940 fu per Green, come racconta nel libro, l'anno della separazione e del dolore. Si trovava negli Stati Uniti allo scoppio della guerra e si affrettò a rientrare. All'indomani dell'armistizio ripartì di nuovo, ma questa volta dovette attendere la fine del conflitto per tornare a casa.
Negli anni dell'esilio volontario, Parigi divenne per lui «una sorta di mondo interiore in cui erravo nelle difficili ore dell'alba (...); ma ci volle un bel po' per varcare deliberatamente la soglia di quella città segreta che portavo in me, perché all'inizio ci furono le cupe settimane in cui il solo nome di Parigi spezzava il cuore a chi lo udiva». La visitava in sogno, ne aveva attaccato sul muro del suo studio una mappa, aveva scoperto che aveva una rassomiglianza con la forma di un cervello umano: «Mi piaceva quindi credere di essere nato nel cuore della memoria; esitavo sulla sede della volontà, della riflessione e del gusto, che cambiavo incessantemente di quartiere». A volte ne situava la storia nel Marais, l'intelletto, gli intellettuali e l'intelligenza nel Quartiere latino, la sua aritmetica nel quartiere della Bourse... Sempre e comunque «tutto questo era attraversato dalla Senna, che rappresentava ai miei occhi ciò che di istintivo e inespresso ci portiamo dentro, come una grande corrente di vaghe ispirazioni che brancola nel buio alla ricerca di un mare in cui perdersi...». Quando finalmente vi rimetterà piede, salirà su quella cupola del Sacré-Coeur dove, colpevolmente, non era mai salito prima: «Ebbi l'impressione di ricevere in pieno petto l'intera città. E fu così che mi venne restituita (...). L'accecante luce di marzo già divorava tutto e Parigi si stendeva davanti a me a perdita d'occhio».
Racconto di un flâneur appassionato, «che sa svagarsi nelle strade senza badare al tempo che passa», ben attento a evitare i luoghi canonici del turismo e del consumo di massa, Parigi è in realtà un pellegrinaggio intimo. «È dentro di me che la ritrovo. Ognuno di noi si porta dietro la Parigi della sua infanzia, della sua giovinezza, dei suoi sogni (...).
Con ogni probabilità chiunque potrebbe munirsi di una guida e verificare la presenza di tutti i monumenti, ma entro i confini stessi di Parigi esiste un'altra città, di difficile accesso quanto lo fu a suo tempo Timbuctù».
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