Leonardo Bistolfi? Quello dei monumenti funerari, diranno i più il cantore della morte che popola i cimiteri monumentali d'Italia di figure dormienti e angeli assorti, di statue velate e di donne fantasmatiche che sembrano evaporare nel marmo. Ma ridurre Bistolfi al solo "scultore dei morti" è un errore che la storia oggi non può più permettersi. Dietro il suo apparente culto della fine si cela una concezione della forma come sublimazione della bellezza: non fine, ma trasfigurazione; non lutto, ma conforto. In questo senso egli è davvero il "poeta della morte" e insieme il primo scultore italiano moderno capace di trasformare il marmo in un pensiero.
Nato a Casale Monferrato nel 1859, figlio di un artigiano scultore, Bistolfi cresce tra scalpelli e polveri di gesso. Alla scuola di Brera e poi all'Albertina di Torino apprende la tecnica, ma presto la rifiuta: la precisione accademica gli appare un limite, non una virtù. Questo rifiuto nasce in un momento in cui il suo tempo chiede altro. È l'epoca della crisi ottocentesca, tra il declino del positivismo e l'irruzione del simbolismo europeo. La scultura, come la poesia e la musica, cerca un linguaggio nuovo per esprimere l'invisibile. Bistolfi vi giunge non con la provocazione, ma con la pietà: l'angelo del silenzio prende il posto dell'eroe, la carezza del marmo sostituisce il clangore del bronzo.
Le sue prime prove come L'Angelo della Morte per la tomba Brayda (Torino, 1882) mostrano già un tratto distintivo: la Morte non aggredisce, ma accompagna; non strappa, ma consola. Seguono sculture che definiscono un lessico unico, fatto di lentezza, di ombra e di grazia funebre: la Sfinge per il monumento Pansa (Cuneo, 189092) e soprattutto La Bellezza della Morte per il monumento Grandis (Borgo San Dalmazzo, 1895).
In quest'opera, Bistolfi tocca un vertice di poesia plastica: una figura femminile nuda, sospesa tra il reale e il visionario, veglia il defunto come in un sonno sacro. Il gesto è lieve, privo di teatralità: la morte non è più evento tragico, ma passaggio, soglia di luce. Il panneggio che avvolge i corpi sembra un respiro pietrificato, e la pietra stessa diventa emanazione dello spirito. È in questo equilibrio tra forma e sentimento, tra peso e trasparenza, che nasce il simbolismo di Bistolfi: un'arte che non rappresenta la morte, ma la riconcilia.
Con queste creazioni si afferma un linguaggio simbolista pienamente maturo. Nel loro silenzio si avverte la lezione di D'Annunzio e la malinconia di Maeterlinck, ma anche quel senso del sacro che ancora permeava un'Italia alla soglia del Novecento, sospesa tra fede e smarrimento. Per Bistolfi, la scultura è una preghiera in forma solida: ogni panneggio è una nube, ogni volto una soglia che si apre sull'altrove.
Lo affermava lui stesso, in una dichiarazione divenuta emblematica: "Io credo che la scultura debba essere silenziosa: non gridare, ma suggerire". La materia, per lui, è voce: non si plasma, si invoca. Così la scultura diventa un linguaggio dello spirito, una presenza discreta che veglia e consola.
A Bistolfi dobbiamo molto anche sul piano culturale: nel 1902 lo troviamo tra gli organizzatori della Prima Esposizione Internazionale d'Arte Decorativa Moderna di Torino, manifestazione fondamentale perché sancì la diffusione in Italia del Liberty e il definitivo superamento dei modelli eclettici di ascendenza neorinascimentale. La sua visione, dunque, non si limitava alla scultura ma investiva l'intero rinnovamento del gusto e dell'idea stessa di arte come sintesi tra bellezza e vita.
Viene poi il passaggio dal privato al pubblico. Con il Monumento a Garibaldi (Sanremo, 18961908) e la Porta del Monumento ai Caduti di Casale Monferrato, la poetica della morte si trasfigura in memoria collettiva. L'eroe e il soldato diventano simboli di resurrezione morale: la morte è sacrificio, non annientamento. Si ritrova questa visione anche in La Madre (19031905) e in L'Alpe (1907), dove il ciclo naturale della vita si fonde con quello spirituale nascere, morire, rinascere eterno ritorno scolpito nel bronzo.
Nella piena maturità, tra il 1910 e il 1930, Bistolfi domina i cimiteri monumentali come un regista dell'ombra. Ho sempre ritenuto che i cimiteri monumentali non siano diversi da un museo: dal Verano a Staglieno, fino al Monumentale di Milano, essi sono testimonianza non solo di memorie familiari, ma anche dell'opera dei più grandi scultori tra Otto e Novecento. Nel Monumento a Sebastiano Ferrero (Biella) le figure si raccolgono in contemplazione estatica; nel Monumento a Carducci (Bologna, 1928) la morte diventa apoteosi: il poeta, ascendente verso la luce, è seguito da un corteo di Muse. L'ultimo grande gesto, il Monumento ai Caduti di Casale Monferrato (1930), trasforma la morte in rito civile: pietà nazionale, memoria di popolo. Con l'avvento delle nuove tendenze, e non riuscendo a reinventarsi, Bistolfi andò progressivamente perdendo quella tensione poetica che lo aveva reso unico almeno fino alla fine degli anni Venti.
Bistolfi non ebbe mai il gusto della provocazione, ma quello della rivelazione. In un'epoca in cui l'arte italiana oscillava tra il verismo dei monumenti pubblici e le prime avanguardie, egli costruì un terzo spazio: quello del sogno. Le sue donne velate, le sue figure che sembrano dormire nel marmo, non appartengono né alla vita né alla morte, ma a un tempo sospeso: il "momento che precede l'eterno".
E così, nell'epoca del rumore industriale e della retorica patriottica, Bistolfi rimane il solo
scultore del silenzio. Quando morì nel 1933, lasciò dietro di sé non un repertorio di tombe, ma un atlante spirituale del Novecento: un'arte che insegnò agli italiani a guardare la morte senza paura, come un varco di luce.