A caccia della verità tra le valli alpine

 A caccia della verità tra le valli alpine
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Quanti segreti ha nascosto l’Appennino nei suoi boschi? Quanto dura il ricordo di una persona? Quanto risuona l’eco di un delitto? Quanto cambierà nel tempo la memoria vittima e quella dell’assassino? Alcune di queste domande illuminano l’ultimo libro di Massimo Zamboni intitolato Pregate per ea (Einaudi). Una storia nera e triste che emerge dal passato come una lirica o una ballata, scandita in maniera polifonica da voci diverse, talmente opposte che non è facile per i lettori capire chi credere e comprendere le ragioni di chi è morto e di chi è sopravvissuto.

Tutto parte dal ritrovamento da parte dell’autore di un masso di arenaria isolato in una faggeta.

Qui una mano illetterata aveva inciso con uno scalpello: «1870/ in pace/ Domenica Gebennini/ fu uccisa/ pregate per ea».

Da quel ritrovamento parte l’indagine su uno strano delitto e viene evocata la storia di Maria Domenica Gebennini, sepolta, uccisa e rimasta invendicata. Un ricordo tragico il suo che si conserva da un secolo e mezzo nella Val d’Asta. In un luogo chiuso, dove la conca delle montagne trattiene il ricordo di cronache secolari. Ognuno qui lo ha adattato modificandolo in leggenda: dai trisavoli ai nonni dei padri fino agli ultimi nipoti. Qualcosa

ha conservato quella storia così come si è preservata quella lapide.

Massimo Zamboni narratore cerca di ricostruire cosa è davvero successo in un ripiano sopraelevato tra Monteorsaro e Roncopianigi. Là dove i boschi di faggio si diradano e lasciano scoperta una radura che tutti conoscono come Biastmador. Ma non è una bestemmia quella che è risuonata nel primo pomeriggio del 22 giugno 1870 bensì fu un grido disperato di donna che ha fatto accorrere la gente. Quello che vedono i paesani quando arrivano richiamati dalle urla «è una donna riversa a terra, al piede di un pioppo ad alto fusto. Giace supina col capo piegato a sinistra, il volto a ponente e i piedi a levante; ha le braccia distese parallele al tronco e gli avambracci piegati, i piedi divergenti. Attorno a lei l’Oliva, la Marianna, Gambaccia, la piccola Maria; e nessuno che sappia cosa fare». La Zannobbia Gebennini corre in paese e annuncia di casa in casa: «È stata uccisa, un brutto fatto! Gambaccia, il Lorenzo Puglia, ha ammazzato sua cognata Maria Domenica, la moglie di suo fratello Felice!». La gente rimane sconvolta dalla notizia e salgono in valle intrepidi due carabinieri per custodire il cadavere e aprire un’inchiesta. Lo fanno ben sapendo che quella è una zona pericolosa dove sono successi altri fatti di sangue e dove l’Arma non è di certo amata dalla popolazione. Ma cos’è davvero successo nel bosco? Come è stata perpetrata la violenza e da chi? E perché sulla vittima e sulla sua famiglia girano strane voci?

Massimo Zamboni cerca di ricostruire le vicende, mescolando racconti, articoli di giornale e atti processuali. Ma quanto spesso il ricordo può diventare pettegolezzo così come una tragedia può assumere i contorni di una leggenda.

A dieci anni da L’eco di uno sparo (Einaudi) in cui Zamboni aveva indagato su un fatto legato al passato della sua famiglia ora si fa di nuovo investigatore al servizio della memoria di una comunità, consapevole che spesso le vittime non hanno giustizia e che i loro nome se non fosse inciso su una lapide verrebbe spesso dimenticato.

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