Jalta, la "pace sporca" che servirebbe oggi

Un saggio analizza lo storico incontro del '45 e il "tradimento" da parte di Stalin

 Jalta, la "pace sporca" che servirebbe oggi

Ho scoperto che si può scrivere Yalta o Jalta. L'ortografia è corretta in entrambi i casi, ma cambia il suono. E un po' anche il significato. La prima, con la «Y», evoca i prati dolci di Oxford; la seconda, con la «J», trasmette il fischio del vento e la bufera che urla. Meglio usare la seconda, perché a vincere non furono i giardini dell'università inglese, ma l'asprezza gelata della Siberia. Jalta è il nome della città di Crimea, affacciata sul Mar Nero, diventata sinonimo di mito politico.

A febbraio del 1945, tre uomini Roosevelt, Stalin e Churchill si sedettero con pesanti cappotti a decidere il futuro del mondo. Così, almeno, ci hanno raccontato. In realtà, come dimostra Roberto Motta Sosa nel suo eccellente saggio Il mito di Jalta. Churchill e la divisione dell'Europa (Anteo Edizioni, pagg. 120, euro 16), nessuna spartizione dell'Europa fu firmata lì.

Nei verbali ufficiali finalmente resi disponibili, letti minutamente dallo studioso italiano, non si parla di blocchi o confini, ma di libertà e democrazia. Belle parole, pronunciate mentre i carri armati sovietici entravano a Varsavia: bugie diplomatiche.

Il vero momento che cambiò la storia era stato concepito e appuntato su un foglietto - un pizzino, diremmo oggi - quattro mesi prima di Jalta, a Mosca, durante la Conferenza «Tolstoy», nell'ottobre 1944. Era la sera del 9 ottobre, nello studio di Stalin al Cremlino. Churchill, accompagnato dal ministro degli Esteri Anthony Eden, sedeva di fronte al dittatore sovietico e a Molotov. Il vecchio leone britannico, con il sigaro tra le dita, prese un foglio di carta e scrisse a matita cinque righe: «Romania 90% Russia, Grecia 90% Inghilterra (in accordo con gli USA), Jugoslavia 50/50, Ungheria 50/50, Bulgaria 75% Russia». Poi lo spinse verso Stalin. Ci fu un attimo di silenzio. Il georgiano lo lesse, prese la matita blu e vi appose una grande spunta. Churchill, nella sua autobiografia (The Second World War, vol. VI, Triumph and Tragedy), raccontò l'episodio con una punta di inquietudine: «Mi parve di compiere un atto troppo cinico, ma Stalin sorrise e disse che era meglio così: non ci sarebbero stati malintesi». Quel foglietto, oggi conservato nei Churchill Archives di Cambridge, fu il vero inizio della cortina di ferro. Non un trattato, ma un promemoria fra due gentiluomini: in realtà, il gentiluomo era uno soltanto. Da quella sera, il destino dell'Europa orientale era scritto a matita e sottoscritto in blu.

Nella prefazione al volume, il professor Fabio L. Grassi osserva che la conferenza di Jalta fu un tentativo di superare

la logica delle sfere d'influenza, non di sancirla: Roosevelt voleva un mondo unificato dal libero scambio; Stalin cercava una cintura di ferro il più ampia possibile, da cui poi slanciarsi sul resto del mondo; Churchill voleva salvare il potere d'interdizione dell'Impero britannico.

L'unico che perse davvero fu il grande Winston: vinse la guerra e perse la pace, e con essa quanto restava dei domini londinesi d'Oriente.

Roosevelt, il più idealista ma anche il più scaltro, aveva già tracciato il nuovo orizzonte del potere: trasformare l'impero dei mari britannico nel dominio oceanico degli Stati Uniti. Washington prese il posto che nei secoli XVI e XVII avevano avuto Londra e Amsterdam: potenza marittima e finanziaria padrona delle rotte e dei commerci.

Mentre il vecchio leone imperiale si ritirava leccandosi le ferite, l'aquila americana spiccava il volo. E sull'altra sponda la bestia feroce del comunismo avanzava, reclamando la sua metà del mondo. Churchill si trovò nel mezzo, come un marinaio intrappolato tra due uragani.

E per la seconda volta nella sua vita andò incontro a una Gallipoli. La prima, nel 1915, l'aveva già segnata per sempre: da giovane Primo Lord dell'Ammiragliato aveva lanciato l'operazione navale contro i Dardanelli per aprire una via verso l'Impero Ottomano. Fu un massacro: 250mila morti e un'umiliazione nazionale. Churchill dovette dimettersi, vagò per anni nel deserto politico, e da quella sconfitta nacque il suo genio tragico.

Trent'anni dopo, a Mosca e poi a Jalta, ripeté in forma diplomatica la stessa scommessa: piegare l'avversario con l'intelligenza, non con la forza. Anche questa volta finì male. La seconda sciagurata Gallipoli fu combattuta non contro i turchi ma contro Stalin, e si concluse nel giro di pochi anni con la perdita dell'Impero. L'errore, spiega Motta Sosa, non fu di codardia ma di visione. Churchill pensava di poter incatenare il comunismo con accordi bilanciati, come un giocatore di scacchi che crede di dominare la partita con un sacrificio calcolato. Ma Stalin non giocava a scacchi: giocava a Risiko.

E mentre l'inglese cercava di difendere la Grecia e Suez, il sovietico occupava Polonia, Romania, Ungheria, Bulgaria. Il Churchill di Jalta non era più l'eroe impavido del «never surrender», ma l'uomo che proprio come Chamberlain a Monaco nel 1938 si era convinto che gli inglesi, e forse lui stesso, non fossero in condizione di imbarcarsi in un'altra guerra. «Non possiamo permetterci un altro bagno di sangue», confidò a Eden. Chi avrebbe potuto affrontare l'Armata Rossa nel 1945, dopo sei anni di macelli?

Dopo la vittoria, Churchill perse le elezioni. Gli inglesi volevano pane, non gloria. Dimenticarono che senza di lui la Gran Bretagna non avrebbe resistito a Dunkerque né sarebbe sopravvissuta alla battaglia d'Inghilterra scatenata

con V2 e stormi di bombardieri da Hitler e Göring. Il mondo non voleva equilibrio: voleva dominio. E così, nel giro di pochi mesi, Stalin occupò Polonia, Romania, Ungheria, Bulgaria. Il comunismo si allungò come una marea. Churchill reagì con la parola: nel 1946, a Fulton, coniò l'espressione «cortina di ferro». Ma quella cortina era già calata la sera in cui Stalin tracciò il segno blu sul suo pizzino.

Motta Sosa invita il lettore a meditare sulle conseguenze di quell'appeasement tra Churchill e Stalin. Decine di migliaia di partigiani fedeli al re di Jugoslavia si arresero agli inglesi fuggendo in Austria. Confidavano in protezione; furono invece consegnati ai miliziani rossi di Tito a Bleiburg e finirono sterminati nelle foibe di Kocevski Rog in Slovenia. Lo stesso accadde ai soldati ucraini che combatterono contro i sovietici nell'armata del generale russo anticomunista Andrej Vlasov, schieratosi con la Germania. Vlasov e i suoi si arresero agli Alleati, ma Churchill ne ordinò la riconsegna ai carnefici staliniani, in nome della stabilità diplomatica. Anche le migliaia di italiani infoibati dai titini con la complicità dei comunisti locali furono vittime della stessa logica: le mani libere lasciate ai capi jugoslavi stalinisti. Tutti danni collaterali di quella Realpolitik che voleva evitare nuovi conflitti.

Infine. Si può accusare Churchill di aver regalato mezza Europa a Stalin, ma non sapremo mai se un'altra scelta avrebbe portato meno lutti. La storia non risponde ai condizionali. Resta tuttavia una ferita nella memoria dell'Occidente, un lago di sangue vivo che Solenicyn non ha mai smesso di rimproverare al premier britannico. Non cancella a mio giudizio la grandezza di Churchill, ma la rende umana, tragica, come una fessura nel marmo.

La guerra in Ucraina ripropone oggi lo stesso dilemma di allora.

Meglio un nuovo appeasement, una pace sporca che non solo salvi le nostre vite ma fermi la falce che sta sterminando una generazione intera di russi e ucraini finora quasi un milione di morti, millecinquecento caduti al giorno secondo il ministro Guido Crosetto oppure tentare lo scacco matto a Putin, magari con la complicità di Cina e India, rischiando di far saltare per aria il pianeta?

Io non sono un giocatore di poker, e non sono presidente di niente. Ma, come Churchill, so che la storia non chiede mai permesso: fa la sua mossa, e va dove pare a lei.

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