
Guardare la storia della civiltà da un'altra prospettiva, una prospettiva indoeuropea, in cui gran parte della cultura e anche delle merci reperibili nell'orbe terraqueo ruotavano attorno a quella che potremmo chiamare «Indosfera».
È la prospettiva che propone William Dalrymple nel saggio appena pubblicato per i tipi di Adelphi La Via dell'Oro. Come l'India antica ha trasformato il mondo (pagg. 556, euro 35). Lo storico britannico, formatosi a Cambridge e vincitore di un Wolfson History Prize, è autore di alcuni dei lavori più importanti degli ultimi trent'anni sul subcontinente indiano (basti ricordare Nella terra dei Moghul Bianchi e Anarchia). In questo caso, allontanandosi dai temi a lui più cari come la caduta dell'impero Moghul e l'ascesa della Compagnia delle Indie, si avventura nella storia più remota delle civiltà e dei regni sviluppatisi nel sub continente. Lo fa per dimostrare che per oltre un millennio - a partire all'incirca dal 200 a.C. - l'India è stata uno dei grandi motori dell'economia mondiale e di conseguenza anche una grande esportatrice di conoscenza e civiltà.
Questo sviluppo, decisamente multifattoriale, parte anche da un dato climatico. Grazie ai venti del monsone asiatico, l'India finì per trovarsi al centro di una vasta rete di rotte marittime e commerciali vantaggiosissime. Questi venti spirano con regolarità per sei mesi in una direzione e per sei mesi in quella opposta. In un mondo dove i viaggi di terra erano lentissimi, erano la garanzia di rapidi viaggi di andata e ritorno verso destinazioni lontanissime. Questo fece sì che con i venti invernali i mercanti indiani si recassero a Ovest sino all'Etiopia. Lì potevano deviare verso l'Iran e la Mesopotamia, oppure verso il Mar Rosso e l'Egitto. Una navigazione di 40 giorni per un percorso che via terra ne richiedeva 120. Lo stesso valeva nella direzione opposta: i mercanti indiani raggiunsero Sri Lanka, Myanmar, Malesia, Thailandia, Laos, Vietnam e Cambogia. Tanto che in questi Paesi l'influenza delle religioni indiane, induismo e buddismo, è risultata fondamentale e permanente. Giusto per dare un'idea, il più grande tempio induista esistente al mondo è ad Angkor Wat in Cambogia e non in India. Esattamente come l'Impero Khmer (802 - 1431) è stato il più grande regno indù surclassando in certe fasi qualsiasi altro potentato indù.
Le merci indiane a partire dalla conquista romana dell'Egitto dopo la sconfitta di Antonio e Cleopatra divennero un fattore economico enorme in una sorta di prima globalizzazione. Lo spiegava Plinio (già nel I Secolo d.C.) che l'India era: «La sentina dei metalli più preziosi del mondo... Non v'è anno in cui non dreni al nostro impero almeno cinquantacinque milioni di sesterzi... Attraverso un'operazione di questa complessità e un viaggio in terre così lontane si ottiene che una nostra matrona possa sfoggiare in pubblico vestiti trasparenti...».
In realtà non era solo questione di vestiti e molte delle merci indiane si rivelarono per secoli fondamentali. Così come l'India creò centri di insegnamento d'eccellenza come l'università monastica di Nalanda da cui passò anche il monaco buddista Xuanzang (602-664) a cui si deve buona parte dell'espansione buddista in Cina. Uno dei risultati di queste istituzione, i numeri indiani e il sistema decimale che noi impropriamente chiamiamo numeri arabi. Nel frattempo il sanscrito diventava una sorta di lingua franca le cui influenze si ritrovano ancora nei toponimi di gran parte del sud est asiatico.
E a questo punto, leggendo il corposo saggio di Dalrymple di cui qui, per spazio, abbiamo potuto toccare solo una minima parte dei temi, viene da chiedersi: ma perché questa parte di storia è così poco raccontata? Giusto per fare un esempio è molto più facile trovare lavori sugli scarsissimi rapporti tra l'Impero romano e la Cina che sui ricchi porti indiani, dove pure i reperti archeologici provenienti dalla Roma dei Cesari abbondano.
Lo storico britannico, che è in Italia per presentare il libro (oggi a Milano alle 18,30 in Triennale), dà di questo fenomeno una chiara spiegazione. Da un lato c'è un bias conoscitivo creato dalla polarizzazione della ricerca. Gli storici delle religioni raccontano il peso dell'India in quel campo. Gli archeologi hanno studiato lo sviluppo commerciale ma spesso guardando o a Oriente o a Occidente, non da entrambi i lati. Insomma un fenomeno enorme è stato scomposto e non visto nella sua totalità.
Poi c'è anche una distorsione ideologica prodotta dal colonialismo britannico, innegabile.
Era difficile trovare una copertura ideologica per l'occupazione dell'India. Era più facile giustificare l'enorme volume d'affari accaparrato con la lotta contro la barbarie. Ma era solo un modo per cercare di tracciare il lungo bilancio della Storia. Che è scritto in numeri indiani.