Letteratura

Tra la verità, la biro e il mare di Grecia, Tiziano Scarpa si affida alle donne

L'autore si lascia ispirare da una vacanza con la moglie per scavare nei ricordi

Tra la verità, la biro e il mare di Grecia, Tiziano Scarpa si affida alle donne

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Tra la verità, la biro e il mare di Grecia, Tiziano Scarpa si affida alle donne

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In un capitolo di Miti d'oggi (1957) Roland Barthes ironizza sugli scrittori che scendono in spiaggia con la macchina da scrivere, sovrapponendo abitudini piccolo-borghesi e ambiziosi ruoli intellettuali; un giudizio troppo severo, perlomeno se si sfogliano le pagine dell'ultima opera di Tiziano Scarpa (La verità e la biro, Einaudi, pagg. 232, euro 18,50), abbozzata davanti al mare di Mastichari (isola di Kos, Grecia) in occasione di un viaggio con la moglie.

Senza patente, costretto a occupare il sellino del passeggero sullo scooter con il quale la coppia si sposta fra le calette, Scarpa ha con sé un quaderno e la penna del titolo; in una pagina racconterà che László Bíró, per realizzare lo strumento che porta il suo nome, dovette ricorrere all'inchiostro tipografico, ritenuto dagli esperti il peggiore, quasi una morchia ottenuta dagli scarti degli inchiostri più nobili destinati alle stilografiche. In che rapporti sia la biro con la verità lo scopriamo subito: la biro sta agli uomini come la stilografica sta alle donne. Non a caso «Donne che dicono la verità» è il titolo che Scarpa assegna ai paragrafi di avventure galanti estratte dal tesoro della memoria, che assieme alle pagine di riflessioni di stile saggistico danno corpo al volume. E se la verità viene dalle donne, allora le donne meritano di essere scrutate con l'attenzione che si destina a chi promette delle illuminazioni.

Si parte con «la studentessa di filosofia», una ragazza che palesa una dissociazione fra testa e inguinaglie che ricorda I gioielli indiscreti di Diderot, irresistibile libro di culto per femministe. Dopo una divertente, ma nient'affatto peregrina fenomenologia del pene (Scarpa evita di ricorrere al comune termine gergale, peraltro usato tranquillamente da più di un Papa del Rinascimento), è la volta di un appuntamento al buio; dell'offerta di una «prima volta» di cui si declina l'invito; di avventure che le vecchie zie definirebbero sapide. Il ritmo brillante richiama gli esordi dello scrittore veneziano, quegli Occhi sulla graticola che lo resero noto al pubblico dei lettori. Intanto, mentre il sole greco tramonta in tutto il suo splendore, la biro annota una memorabile riflessione sulla differenza fra teatro greco e arena romana che ci tocca più di quanto non vorremmo.

Nel teatro greco la skenè, una specie di muro, separa il luogo dove recitano gli attori dalle quinte. A Roma, invece, la scena è abbattuta, il pubblico circonda l'arena e niente separa più l'arte dalla vita.

Quando il teatro diventa circo, gli attori cedono il passo ai gladiatori, costretti a recitare l'unica verità di cui il pubblico è assetato: il sangue, che a Roma scorre sul serio. E cosa sono l'autofiction dilagante, i grandi fratelli televisivi, il fastidio per la letteratura d'invenzione spacciato per «fame di realtà» se non una fanfara che invita ad affrettare la trasformazione gladiatoria dell'esistenza?

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