Nel Paese che legge poco e dimentica in fretta, dove l’oblio è spesso più rapido della gloria, il nome di Giancarlo Vigorelli scomparso vent’anni fa, il 16 settembre 2005 — rischia oggi di apparire come un sussurro tra polverosi faldoni bibliotecari. E invece dovrebbe essere un grido. Un ammonimento. Un modello. Perché Vigorelli è stato, tra i pochi del Novecento italiano, a pensare la letteratura come fatto europeo e la critica come gesto politico.
Critico, saggista, narratore, direttore di riviste, scopritore di talenti, intellettuale militante e raffinato, Vigorelli non ha mai accettato che la cultura fosse un recinto nazionale. Il suo nome va iscritto nella linea dei pontefici culturali del secolo: come Albert Thibaudet in Francia o George Steiner in Inghilterra. Solo che in Italia, dove il letterato viene amato solo se si limita a comporre versi in penombra, Vigorelli ha pagato il prezzo di una lucidità «inopportuna». Sino dalla fondazione della sua L’Europa letteraria (1960), Vigorelli aveva chiaro che l’unico modo per salvare la letteratura era salvarla dalla gabbia nazionalistica. La sua rivista fu non solo una tribuna intellettuale ma un vero laboratorio d’incontro tra Est e Ovest, tra i poeti russi perseguitati e i narratori mitteleuropei, tra la Spagna franchista e l’Italia del centrismo.
La sua intuizione era profetica: la letteratura europea non si costruisce sull’uniformità, ma sul dissenso. Da Anna Achmatova - che aiutò a far conoscere e difendere e fuggire dall’Urss- a Pasternak, da Canetti a Celan, Vigorelli ospitava le voci scomode, in una stagione in cui farlo significava sfidare regimi e redazioni. Era convinto che lo scrittore fosse per natura un esule, e che la critica dovesse accompagnarlo nel suo esilio e non rinchiuderlo in cattedre. E mentre molti dei suoi colleghi si accontentavano di aggiornare il canone scolastico, Vigorelli cercava il punto in cui la letteratura fa attrito con la storia.
A vent’anni dalla morte, rileggere Vigorelli significa scoprire un metodo critico fondato non sulla pedanteria, ma sull’audacia. Mai sistematico, mai «strutturalista », sempre mobile, il suo approccio era quello di un viaggiatore della parola. Nei suoi saggi su Manzoni, su Moravia, su Pasolini, non si avverte mai la gabbia della scuola, ma l’intelligenza appassionata di chi legge con la carne e non solo con l’intelletto. Ha scritto che «la critica è la sola arte che non può mentire, se è fatta davvero ». E lui non mentiva. Nemmeno quando gli costava caro. Come quando, nel 1975, su Il Giorno , accusò Dario Fo di passati ambigui («Sa di avere in pancia l’incubo dei suoi trascorsi fascisti»), attirandosi una querela e il biasimo di una certa intellighenzia salottiera. Ma Vigorelli non era fatto per i salotti. Era un critico da trincea, e la trincea era la pagina.
Chi oggi conosce Pasolini, lo deve anche a lui che intuì per primo tutte le potenzialità dell’allora esordiente poeta di Casarsa; chi ha guardato Ligabue come pittore e non come fenomeno folklorico, lo deve a lui che lo salvò dalle «fauci» di una provincia per farlo esporre alla Galleria La barcaccia in Piazza di Spagna a Roma. Chi legge Claudio Magris, deve sapere che proprio Vigorelli fu il suo primo maestro, non solo nell’arte critica, ma in quella più sottile dell’ascolto del mondo. La sua scoperta di Ligabue fu un gesto estetico e civile: restituire dignità a un artista marginale, rivelarne l’inquietudine profonda, sottrarlo al giudizio pietista per mostrarne la forza espressiva. Così come in Pasolini vide, ben prima della fama, non il poeta delle borgate, ma il pensatore tragico, il dissidente interno, l’erede di una classicità inquieta. E lo stesso vale per il suo rapporto con Magris: in lui Vigorelli vide il futuro intellettuale mitteleuropeo, non a caso sostenendolo proprio negli anni della fondazione della Nuova Rivista Europea .
Oggi Giancarlo Vigorelli è più attuale che mai. E questo non è un esercizio commemorativo, ma un’urgenza. Perché in un’epoca dove le riviste culturali sono diventate prodotti editoriali senz’anima, la sua rivista L’Europa letteraria resta un modello di intelligenza nomade. Perché mentre la critica letteraria si è ridotta a recensionismo di cortesia, i suoi saggi mostrano cosa significa entrare nella carne del testo, metterne a nudo le tensioni, esporre il pensiero alla vertigine dell’altro. E perché mentre l’Unione Europea si riduce a tecnocrazia economica, la visione di Vigorelli ricorda che l’Europa vera è quella dei poeti perseguitati, dei narratori disobbedienti, dei critici senza bandiera.
Che oggi non si parli di lui nei licei, che non gli sia intitolato un premio, che pochi editori o nessun editore abbiano ristampato le sue opere, è un segno della nostra miseria culturale. L’Italia che fu laboratorio critico del Novecento (con Contini, Pampaloni, Debenedetti, Bo) non ha saputo custodire uno dei suoi spiriti più liberi. Forse perché troppo europeo nel vero senso perché Vigorelli, con un anticipo tremendo, credeva in una «Europa non fondata sull’acciaio e sul cemento, ma sulla cultura». Forse Vigorelli era troppo poco allineato. Forse - e questa è la verità più amara - era troppo intelligente. E così le opere di Vigorelli oggi sono rifiutate da grandi e piccoli editori. Vigorelli è inattuale. E proprio per questo indispensabile. In un tempo in cui la cultura vive nei like e nelle polemiche a scadenza, leggere Vigorelli è come tornare a respirare a pieni polmoni.
È ricordare che la letteratura non sia un prodotto, ma un rischio. Che la critica non è un mestiere, ma un esercizio di libertà. E che l’Europa non è un sogno, ma un dovere. Se lo avessimo saputo ascoltare, forse oggi non saremmo così. Volenterosi orfani di pensiero e di azione.