
È un giorno di aprile del 1987 e Ronald Reagan impugna la pistola. Non quella da western, ma l'altra, quella fatta di dazi, orgoglio e semiconduttori. Il presidente attore, il conservatore liberista, il sognatore di un'America aperta e competitiva, mette da parte il sorriso per rispondere al Giappone con un colpo secco. Non vuole farlo, lo dice lui stesso. "I dazi sono l'ultima risorsa", ammette, come si confessa un peccato necessario. Ma a volte anche chi crede nel libero mercato deve proteggere la frontiera. Il mondo cambiava sotto la pressione del microchip. Il Giappone degli anni Ottanta non è solo sushi e auto a basso costo: è una macchina perfetta che produce tecnologia, abbassa i prezzi, invade i mercati. I semiconduttori giapponesi entrano negli Stati Uniti e si mangiano i concorrenti, con la stessa abilità dei pacman: agili, economici, senza ostacoli. Le aziende americane arrancano. Il dumping quella parola brutta che sa di trappola nei prezzi diviene una realtà documentata. Washington chiede a Tokyo di firmare un accordo. E Tokyo lo firma. Poi fa spallucce. Reagan, il presidente che promette "morning in America", si trova costretto a scegliere tra l'ideologia e la sopravvivenza industriale. Sceglie la seconda, con riluttanza lucida. Impone tariffe su 300 milioni di dollari di prodotti giapponesi, dichiarazione radiofonica alla nazione, tono grave. "Non vogliamo una guerra commerciale, ma non possiamo permettere che il gioco sia truccato". La lezione è tutta lì: la libertà funziona solo se le regole valgono per tutti. E Reagan non è disposto a diventare lo sceriffo di una città dove i banditi sono liberi di giocare sporco. Non invoca l'autarchia, non chiude i porti, non costruisce muri. Ma mostra i denti. Il mercato, spiega, è come un'arena: la competizione è nobile solo se gli avversari non usano coltelli nascosti. Non è un'inversione di rotta, ma un messaggio: l'America non è una preda. E l'Occidente non deve temere di difendere se stesso, quando l'avversario trasforma il commercio in un'arma. Oggi, quando parliamo di dazi, pensiamo a guerre infinite tra tweet e vendette. Ma allora fu diverso.
Reagan non cercava il nemico, cercava l'equilibrio. E in quel gesto, in quella scelta sofferta, c'era tutta la fatica della politica vera: quella che sa che i principi contano, ma che non possono essere un alibi per farsi sbranare. È una vecchia lezione americana.