"L'Ia fa di conto ma è meglio come artista"

L'autore di "Intelligenza condivisa", Ethan Mollick: "Non può ancora sostituirci. Anche perché ogni tanto ha le allucinazioni..."

"L'Ia fa di conto ma è meglio come artista"

Ethan Mollick insegna Management alla Wharton School dell'Università della Pennsylvania, dove codirige il Laboratorio di Ia generativa. È un uomo che corre alla velocità della luce, quando parla, quando scrive, quando pensa: si rispecchia nel suo saggio Co-intelligence, in italiano L'intelligenza condivisa, appena pubblicato da Luiss Univeristy Press (pagg. 174, euro 18), in cui racconta come «Vivere e lavorare insieme all'Ai».

Professor Mollick, come si fa a condividere l'intelligenza?

«Per condividerla con l'Intelligenza artificiale, l'unico modo è fare pratica. Serve tempo. Dobbiamo provare e riprovare, sforzarci, fare tentativi per usarla, impiegandola in quelle attività che sono tipiche del nostro lavoro, facendoci aiutare, per esempio, a generare idee, avanzare domande, cercare risposte, elaborare feedback, scrivere, editare, leggere, sintetizzare... Dobbiamo includerla nel processo: è così che cominciamo davvero a usarla».

Come collega, però, è assai competitiva: in una ricerca, scrive, su 1016 lavori presi in esame, solo 36 non presentavano sovrapposizioni con l'Ia.

«Però non siamo ancora al punto di una sovrapposizione totale, con ogni aspetto del lavoro. Non ci può ancora sostituire. Esiste quella che chiamo la Jagged Frontier, la frontiera frastagliata della Ia, un fenomeno per cui non sappiamo che cosa aspettarci. Per esempio, se una persona è esperta in un campo specifico, il mio suggerimento è di iniziare a utilizzarla lì, in quel campo, e farsi aiutare: soltanto così possiamo scoprire in che cosa sia un buon aiuto e in che cosa non lo sia, che cosa sia capace di fare e che cosa no».

Per esempio nel suo caso?

«Il mio lavoro come professore comprende vari aspetti: insegnare, fare ricerca, occuparmi degli aspetti amministrativi, scrivere articoli, aiutare gli studenti, tenere conferenze... L'Ia può darmi una mano in quelle attività in cui sono più debole, mentre in quelle in cui già sono forte non mi serve: ecco, questa è co-intelligenza».

La cosa più sorprendente?

«Io la uso per tutto: per generare film, idee, intrattenimento. Impiego anni a scrivere articoli e testi e l'Ia è un critico eccellente: è migliore di qualsiasi occhio umano nell'individuare errori e imprecisioni. E poi è bravissima nel coding: grazie all'Ia creo software e giochi».

Uno dei punti cruciali del libro è proprio la creatività dell'Ia.

«È qualcosa che ci pungola, ci ferisce in un punto del nostro cervello. Però, se ci domandiamo in che cosa sia brava l'Ia, la risposta non è nelle questioni di logica o di matematica, bensì nelle attività creative e artistiche. C'è una battuta che dice che vorremmo usare l'Ia per fare il bucato, così da poterci dedicare all'arte, ma è più probabile il contrario... E, in questo, c'è un richiamo a qualcosa che è tipicamente umano».

Quanto è creativa l'Ia?

«È stato fatto un esperimento sull'innovazione, in una classe, in cui venivano giudicate le idee migliori. Ebbene, su quaranta idee giudicate le migliori, trentacinque erano state generate dall'Ia».

Giudicate da chi?

«Da giudici umani».

Come fa l'Ia a essere così creativa?

«Non lo sappiamo. Non sappiamo perché sia così brava in tante cose diverse. E, fra le altre, è diventata creativa».

È davvero creativa quanto una persona?

«È difficile misurare la creatività, ma pensiamo a quanto accadde con i primi sintetizzatori. Le persone che non erano brave a suonare hanno iniziato a produrre musica, anche buona musica. Si temeva che distruggesse la musica, ma non è andata così: l'ha trasformata. Allo stesso modo, chi non è creativo, grazie all'Ia può diventarlo».

Che cosa sono le «allucinazioni» dell'Ia?

«L'Ia impara da modelli statistici del linguaggio, in base ai quali elabora delle previsioni: così crea le risposte, usando dei token di linguaggio. In pratica indovina la parola più probabile: non sa se sia vera oppure no. E allora, a volte, i risultati non hanno senso: le chiamiamo allucinazioni, quando fa confusione...»

Oltre a essere creativa, in che cosa è brava l'Ia?

«Offre diagnosi migliori di quelle di molti dottori. Certamente può sbagliare, come i dottori umani, del resto. E abbiamo le prove che a scuola possa essere molto utile. Non per fare i compiti al posto degli studenti, per rispondere alle domande al posto loro: in questo caso si verifica quella che chiamo l'Apocalisse dei compiti a casa, in cui i ragazzi non imparano nulla. Invece, se la si usa come tutor, con l'aiuto degli insegnanti, funziona da amplificatore».

Abbiamo parlato di lavorare. Quanto al «vivere» con l'Ia?

«Credo che tutto stia cambiando molto rapidamente. Nel libro ho commesso un errore: non sapevo quanto velocemente sarebbe cresciuto il fenomeno. Ormai milioni di persone nel mondo utilizzano l'Ia: hanno una relazione con ChatGpt, è come se fossero amici. Milioni e milioni di persone già vivono con l'Ia».

Perché dice di trattare l'Ia come una persona?

«L'Ia non è una persona, questo è chiaro. Però, per usarla al meglio, va trattata come tale: è il peccato originale, che a tanti non piace. Poiché l'Ia ha imparato il nostro linguaggio e lavora con noi come assistente, dovremmo considerarla una persona: è il modo per renderla più efficace. Certamente esiste un rischio nel dirlo ma, per lavorare con l'Ia, ritengo sia il modo migliore di approcciarla».

Dobbiamo per forza lavorare con l'Ia?

«No. Possiamo scegliere. Però non credo sia intelligente non farlo perché, nel momento in cui la usiamo, scopriamo che è un aiuto valido, che è brava in moltissime cose e che diventa sempre migliore. In ogni caso, fingere che non faccia già parte della nostra vita è semplicemente falso».

Che cosa insegna ai manager?

«Nessuno sa davvero quale sia il modo giusto di utilizzare l'Ia in un singolo lavoro; perciò il lavoro di ciascuno di noi è proprio capire come usarla al meglio: come possa trasformare il nostro lavoro, come possa cambiare l'impiego, il rapporto col datore di lavoro, coi colleghi... Ora, tutti la usano, perché rende il lavoro più semplice: se qualcuno non lo ammette, è solo per paura».

Gli ambiti di utilizzo più importanti secondo lei?

«Sono due: la scuola e la medicina. L'Ia non può sostituire gli insegnanti, ma in molte zone del pianeta non esistono classi a disposizione degli studenti; e allora l'Ia può aiutarci a risolvere il problema dell'istruzione in questi luoghi. Allo stesso modo, ci può fornire una diagnosi medica nei casi di emergenza, in cui non ci sia un dottore disponibile. Ecco, queste sono due aree di utilizzo buone, quando non ci sia un buon umano in giro».

Come le è venuto in mente il titolo Co-intelligence?

«È venuto in mente a mia sorella. È una produttrice, a Hollywood. È sull'altro lato della barricata: perciò, da creativa, le ho chiesto un consiglio...».

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