
Lissa per gli italiani, dopo il 20 luglio 1866, smette di essere un'isola. Per certi versi non è nemmeno il luogo di una battaglia navale, la prima battaglia della storia tra flotte corazzate in mare aperto (quella di Hampton Roads del 1862 era stata una scaramuccia tra due prototipi). Diventa il sinonimo di uno psicodramma politico militare. Per capire quanto abbia inciso nell'immaginario collettivo di una nazione giovane, e che voleva sentirsi erede delle grandi repubbliche marinare, non bastano i singoli istanti dello scontro. Quelli che si sono trasformati in quadri o in aneddoti. La Re d'Italia che combatte disperatamente sino a che non viene speronata, dopo che il timone è diventato inservibile. L'equipaggio della nostra corazzata che spara con le armi leggere verso la Ferdinand Max che dà macchine indietro dopo avere aperto uno squarcio di 15 metri quadrati sotto la linea di galleggiamento della nave italiana. La Novara in fiamme a causa del carbone ammassato in coperta, per tenere il passo della flotta, che continua a sparare mentre gli austriaci più volte l'accerchiano e poi il disperato tentativo di rimorchiarla interrotto dall'esplosione che l'affonderà. Il comandante della Drache austriaca decapitato dalla pioggia di proiettili italiani e il secondo che prende il suo posto...
Lissa è più di questo. O di quello che ha lasciato nella letteratura, compresi alcuni dei passaggi più strazianti dei Malavoglia di Verga: "Si chiamava il Re d'Italia, un bastimento come non ce n'erano altri, colla corazza, vuol dire come chi dicesse voi altre donne che avete il busto, e questo busto fosse di ferro, che potrebbero spararvi addosso una cannonata senza farvi nulla. È andato a fondo in un momento, e non l'abbiamo visto più, in mezzo al fumo, un fumo come se ci fossero state venti fornaci di mattone".
Lissa è stata la grande delusione, la sconfitta trasformata in disastro a colpi di titoloni di giornale. È stata il trionfo delle commissioni d'inchiesta. Della caccia all'ammiraglio o al contrammiraglio colpevole. È diventata proverbiale: una pietra di paragone del disastro. Mentre il nemico, Wilhelm von Tegetthoff (1827 - 1871) è diventato l'ammiraglio d'acciaio, quello della frase - mai pronunciata - "Uomini di ferro su navi di legno hanno sconfitto uomini di legno su navi di ferro". Senza contare le altre leggende... L'ordine di speronamento contro la Re d'Italia dato in veneto al timoniere men che meno che da Tegetthoff in persona: "Daghe dentro Nino che la ciapèmo". Le urla sulle navi austriache "Viva San Marco". Allora proprio perché raccontare la storia di questo evento in maniera neutra è stato a lungo impossibile è benvenuto il saggio appena pubblicato per i tipi del Mulino a firma di Giuliano Da Frè: Ferro, legno e acqua salata. L'ammiraglio Tegetthoff a Lissa (pagg. 254, euro 18). Da Frè fa piazza pulita, sfruttando anche gli ultimi lavori di Alessandro Marzo Magno e Andrea Tirondola, di molto del leggendario appiccicato a Tegetthoff che pure fu un ammiraglio coi fiocchi e controfiocchi e capace di intuire che lo sperone poteva essere l'arma risolutiva venuta dal passato ma perfetta per le navi a vapore. Ad esempio i famosi uomini di ferro su navi di legno. La cosa più simile è quello che l'ammiraglio scrisse in una lettera a Emma Lutteroth il 24 giugno del 1866: "Noi possiamo mettere in linea 24 navi, di cui sei corazzate; ma anche dietro murate di legno pulsano cuori di ferro". Il resto fu inventato a posteriori.
Ma al di là dei dettagli, che comunque intignano sempre gli storici, il saggio ha il merito di mettere bene in evidenza la concatenazione degli eventi, concatenazione che getta una luce diversa sui personaggi principali della vicenda. A partire da Tegetthoff e dall'ammiraglio italiano Carlo Pellion di Persano (1806 - 1883).
Entrambi si trovarono a comandare delle flotte imperfette e create in un momento in cui le innovazioni tecniche si susseguivano a spron battuto. Quella che era una buona tecnica di combattimento nel 1850 era diventata assolutamente inadeguata nel 1866. Come scrisse Alfred T. Mahan: "Un comandante che avesse combattuto l'Invicibile armata nel 1588 sarebbe stato più a suo agio su una tipica nave da guerra del 1840, rispetto a un capitano del 1840 catapultato su una delle unità più avanzate della guerra civile americana".
Comandanti ed ammiragli a Lissa si trovarono a dover gestire flotte miste con navi di legno, di ferro, corazzate e non, a ruote, a elica, con torrette girevoli, con cannoni in batteria... Insomma a scontrarsi non furono due flotte ma due disastri logistici.
Tegetthoff fu favorito da un fattore strategico. I porti austriaci erano meglio organizzati e più vicini a Lissa. Questo gli diede il tempo di esercitare i suoi equipaggi e di lavorare meglio all'organizzazione della sua flotta. Persano fu costretto a muovere da Taranto ad Ancona tenendo assieme navi su cui mancavano i macchinisti, i cannonieri... Limitandosi alle corazzate: si trattava di 12 navi di 6 modelli diversi, costruite in 6 cantieri di 4 differenti nazioni. La flotta austriaca era leggermente più omogenea e, quantomeno, le corazzate potevano tenere tutte la stessa velocità, un massimo di 11 nodi. Quindi in caso di scontro gli italiani non potevano inseguirla perché la flotta si sarebbe sicuramente scompaginata per le differenze tra gli apparati motore. Per il resto gli austriaci in inferiorità numerica, potevano fare pochino. Il 27 giugno ad esempio Tegetthoff si presentò fuori dal porto di Ancona sperando di bombardarlo prima dell'arrivo di Persano. Arrivò in ritardo. Capì di non essere in grado di attaccare la città con la flotta italiana che si schierò a difesa. Sparò qualche inutile bordata e tornò in tutta fretta verso le sue basi. Una scelta saggia, ma se solo gli italiani avessero risposto al fuoco sarebbe sembrata una fuga. Persano non capì il versante mediatico della faccenda. E finì sulla graticola. Anche a causa dei suoi contrammiragli, Albini e Vacca, che gli remavano contro. Ma la verità era che i prussiani avevano vinto a Sadowa e l'Italia di sicuro non aveva vinto la seconda battaglia di Custoza. A Persano fu dato il compito di vincere qualcosa ad ogni costo. E il governo iniziò a tempestarlo, tutte quelle navi costose ed eterogenee dovevano pur servire a sbattere una vittoria qualunque sul tavolo della pace, lo stesso tragico schema in cui si fece ingabbiare Mussolini quasi ottant'anni dopo. La flotta partì, senza un vero piano, per bombardare e conquistare l'isola di Lissa, di utilità strategica mediocre. Tegetthoff ne approfittò piombando sulla flotta italiana, con una tattica mutuata da Nelson a Trafalgar e in più gli speroni che erano tornati di moda assieme ai motori a vapore. Un tafferuglio feroce in cui le navi italiane agirono con poca coordinazione, anche per la poca voglia dei subordinati di Persano nell'eseguire i suoi ordini. Perdendo due unità. Ma anche la flotta austriaca tornò verso i suoi porti con molte navi ridotte a lumicino, seppur galleggianti. E ben poche prospettive di poterne di nuovo uscire a breve.
Ma Persano che avrebbe potuto vincere ad Ancona con qualche colpo di cannone comunicò di aver vinto a Lissa. Quando arrivò a terra con due navi di meno... scoppiò quell'apocalisse che lo portò sotto processo e alla perdita del grado. La passeranno completamente liscia tutti quelli che disobbedirono ai suoi ordini e tutti quei politici che lo spinsero a combattere una battaglia senza senso. Tegetthoff invece si godette la gloria, infischiandosene di chi gli rinfacciava di non aver dato il colpo di grazia alla flotta italiana. Il colpo di grazia non c'era, il rischio di farsi massacrare sì, invece gli italiani si massacrarono da soli a mezzo stampa e a mezzo processi.
E così forse ha iniziato a circolare un'altra frase che probabilmente Tegetthoff non ha detto: "Un buon comandante deve sempre fidare nella sua buona stella senza fidarsene mai troppo". Persano invece scelse il silenzio e una pensione regia clandestina... Ma anche questa è una tipica storia italiana.