Che cosa possiamo davvero conoscere degli altri? Nel 2014 un poeta che tutti considerano un gigante della sua epoca, Francis Blundy, legge un poema destinato a scomparire, un poema dedicato alla moglie Vivien e recitato una sola volta durante una cena tra amici e che finirà per assumere un'aura quasi mitologica.
Più di un secolo dopo, nel maggio del 2119, Thomas Metcalfe, studioso di un mondo precedente ormai lontanissimo (il nostro presente, più o meno) attraversa un paesaggio che non assomiglia più a un Paese, è un insieme di terre sopravvissute dopo il Grande Disastro, e si mette a inseguire gli indizi di quel poemetto perduto, come se in quelle righe potesse trovare un senso che la sua epoca non gli dà. Metcalfe vive in un mondo sommerso, letteralmente, dove le grandi istituzioni del passato sono state spostate dall'acqua, come la Bodleiana, ora ricollocata in Snowdonia per salvarla dall'inondazione che si è mangiata Oxford. Metcalfe insiste a consultare gli stessi archivi arcinoti, sperando in una rivelazione che non arriva mai. L'ossessione per La Corona per Vivien (il fantomatico poemetto) diventa l'ossessione di un'illusione: l'idea che il passato abbia una chiarezza che il presente non ha, quando invece è il passato stesso a essere imperscrutabile, come le storie degli amici di Blundy, fatti di amore e invidia, fedeltà e tradimento, equilibri mai dichiarati.
In Quello che possiamo sapere (Einaudi) di Ian McEwan il mondo sommerso insomma è una metafora ambientale ma interiore, la ricostruzione del pensiero che tenta di interpretare ciò che è sommerso e lo sarà per sempre, il passato, la conoscenza dell'altro e lo stesso presente. Metcalfe si muove come se la razionalità fosse ancora un metodo sicuro e come se gli archivi potessero supplire alla comprensione, e McEwan (talvolta troppo didascalicamente, ma vabbè), lo osserva con una pazienza che diventa ironia, lo lascia sbattere contro gli stessi limiti che abbiamo noi, nel nostro mondo che si crede solido mentre si sfalda un pezzo alla volta.
È una riflessione sulla conoscenza (non scientifica, più in senso umano) che non ha nulla di consolatorio: il futuro non chiarisce il passato, i documenti non chiariscono gli esseri umani, l'idea stessa di interpretare diventa una forma di resistenza, un modo fragile e disperato di non ammettere che ciò che ci sfugge è sempre più vasto di ciò che afferriamo. McEwan questa volta usa il futuro come un artificio minimo, per separare le persone dai loro contesti e mettere in scena quanto poco resti quando il paesaggio cede. Insomma, la costruzione della trama è un sismografo delle omissioni: una caccia al poema perduto che svela più della comunità che lo aveva celebrato di quanto dica del testo in sé, e anche un viaggio che illumina un crimine, e una storia d'amore, e una rete di compromessi, e soprattutto il fallimento della memoria come strumento di verità.
Quando il romanzo allude a ciò che i discendenti sapranno di noi e del mondo guasto che lasceremo, l'effetto non è profetico bensì speculare: non sta parlando del futuro, sta parlando del presente. Perché nessuno di noi, in fondo, conosce gli altri, e anche perché è proprio il senso della ragione che nel nostro presente, non nel futuro, sta sprofondando di giorno in giorno come se niente fosse.