Anche una risata può uccidere. Può uccidere, e può servire a combattere un fenomeno culturale fatto di prepotenza, sangue e morte qual è la mafia. E gli strafalcioni linguistici dei mafiosi, parola di esperti scrittori, fanno ridere, eccome.
Boss ignoranti, padrini senza istruzione, citazioni che suscitano ilarità come «prove scaccianti» invece che schiaccianti, persone minacciate dalla «spada di Damacca» invece che di Damocle, ma che a collaborare non hanno mai avuto il minimo «tintinna mento».
Proprio gli strafalcioni letterari dei mafiosi sono sono stati raccolti nel volume «"Signor giudice, mi sento tra l'anguria e il martello" Stupidario - ma non solo - di Cosa Nostra» di Lino Buscemi e Antonio Di Stefano (Navarra editore).
C'è veramente di tutto. Ci sono i mafiosi che per sottrarsi alle proprie responsabilità «si creavano l'alito», che «hanno sempre vissuto allo stato ebraico» e «ci hanno avuti alla loro mercedes».
«Pronto, Avvocato, mi può dire se il processo di mio marito lo faranno al Tribunale oppure nell'aula hamburger?», dice un donna e ancora: «Signor Giudice, mio cugino non era contuso (invece che colluso, ndr) con la mafia».
Spigolature e aneddoti riferiti dai diretti protagonisti dei processi completano «l'ameno compendio di farsesche trascrizioni, tanto più incredibili quanto più genuine e testuali», assicura la casa editrice. Non un saggio, e neanche uno studio scientifico. Ma comunque uno spaccato di una realtà che, a volte, sembra davvero superare anche la fantasia.
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