
Il primo romanzo di Joyce Carol Oates uscì sessanta anni fa. Si intitolava With Shuddering Fall e, da allora, la scrittrice americana, nata a Lockport nel 1938, ne ha pubblicati un'altra sessantina, oltre a novelle, racconti, memoir, saggi, libri per bambini, al ritmo di più di uno all'anno. Con Them («Loro»), parte del quartetto sull'Epopea americana, ha vinto il National Book Award nel 1970, con molti altri è stata finalista al Pulitzer; Blonde, su Marilyn Monroe, è diventato una serie tv; ha una predilezione per il gotico, che si è tradotta in un capolavoro (Il maledetto); nei suoi memoir ha raccontato la sua infanzia di scrittrice cresciuta in una fattoria nell'upstate New York (Paesaggi perduti) o il dolore immenso di perdere il marito nel 2008, dopo quaranta anni di vita insieme (Storia di una vedova). Nel 2009 si è risposata con un neurobiologo, morto nel 2019: una storia personale che riecheggia nel recente Late love. In Italia sono appena uscite due sue opere: una novella, L'incidente in bicicletta (ilSaggiatore) e un romanzo di quasi cinquecento pagine, Macellaio (La nave di Teseo), che Joyce Carol Oates presenta in questi giorni a Milano, dove ha ricevuto il Premio Chandler 2024 del Noir in Festival (oggi sarà all'Università Iulm, ore 11). Macellaio è una storia estrema, la vicenda di un medico, Silas Aloysius Weir, che nel New Jersey del 1850 si ritrova a dirigere un istituto per donne malate di mente, dove conduce esperimenti crudeli e raccapriccianti, al confine fra abusi e tortura; e che, paradossalmente, acquisisce una incredibile fama come «padre della ginopsichiatria». Una finzione basata su una terribile realtà storica.
Joyce Carol Oates, come ha trovato il coraggio di scrivere questo romanzo?
«È difficile rispondere. Avevo già un certo numero di storie e di romanzi sulla ricerca scientifica e sulla cattiva condotta scientifica, sui pregiudizi prevalenti nei confronti delle donne... È un argomento su cui scrivo da anni».
Però qui scende molto nel dettaglio, come ha fatto?
«Sì, ci sono molti dettagli. Il mio ultimo marito, che è morto, era un neuroscienziato e uno dei temi a lui cari era proprio la cattiva condotta scientifica; perciò ero a conoscenza degli interventi scandalosi condotti da medici come Marion Sims e Henry Cotton. E di quello che aveva fatto Silas Weir Mitchell, anche lui molto famoso. Erano tutti e tre celebri e, quando sono morti, hanno ricevuto grandi tributi, in cui venivano omaggiati come il padre della ginecologia, il padre della psichiatria... Davvero vergognoso. Ecco, non volevo che nel romanzo aleggiasse un tono da humour nero, non so se si sia colto».
Beh, c'è molta violenza.
«Sì, nei loro interventi».
Ma anche nei suoi romanzi, la violenza è un tema costante. Perché?
«C'è violenza nel mondo. Perché le donne non dovrebbero scrivere del mondo reale? Gli uomini scrivono da sempre di guerra mentre le donne, tradizionalmente, si ritiene debbano occuparsi di famiglia; ma oggi, nel XXI secolo, le donne scrivono di tutto».
La vicenda del dottor Weir è una versione perversa del sogno americano?
«Sì, il dottore vuole farsi un nome e diventare famoso per le sue ricerche; ma vuole anche davvero aiutare le persone e davvero aiutare le donne. Così era Sims: non era solamente un mostro, ha fatto anche del bene, per esempio trovando un modo per curare la fistula che affliggeva molte pazienti. Volevo che il romanzo fosse complesso e mostrasse non solo un mostro ma anche un ricercatore e uno scienziato serio».
Il sogno americano è qualcosa che attraversa i suoi romanzi, per esempio Blonde, che parla di Marilyn, o Acqua nera, che riprende il caso della giovane assistente annegata per colpa di Ted Kennedy. Che cos'è questo sogno?
«È un po' un cliché. È l'idea che tu possa venire in America e trovare la tua via verso l'ascesa, lavorando sodo. Un cliché, appunto, che probabilmente non è mai stato vero: succede, ma solo a pochi... È vero, ci sono degli immigrati che, nel giro di una generazione, sono diventati multimilionari - non so come, ma è così - ma a moltissimi altri non è mai accaduto. A 16 anni, Cornelius Vanderbilt aveva già iniziato a lavorare con i traghetti e poi a un certo punto si comprò l'intera rete di trasporti: non so come, non ne sarei capace. Ma questo è il sogno, dalle stalle alle stelle: qualcosa di molto limitato e per pochi».
Anche per il dottor Weir?
«Lui viene da una famiglia di Boston abbastanza nota, in cui è l'unico poco talentuoso. Infatti è interessante che, all'epoca, essere un dottore fosse una professione di basso rango, non prestigiosa. Lui avrebbe voluto fare il predicatore, ma non era abbastanza sveglio; così come, nella realtà, Sims avrebbe voluto diventare avvocato, ma ripiegò sulla medicina».
È una esploratrice del lato oscuro: delle persone, delle famiglie, dell'America, della scienza, delle famiglie...
«Anche altri scrittori si sono occupati dei lati oscuri e del male; di solito scrittori maschi, pensiamo a Dostoevskij, o a Stephen Crane».
Perché ha scelto la faccia inquietante della letteratura?
«È quella che mi interessa. Sarebbe stato come chiedere alla mia amica Toni Morrison perché scrivesse della questione razziale: era il suo tema. E il lato oscuro è il mio. Ci sono molti che leggono solo storie a lieto fine, in America soprattutto lettrici; anche se oggi ci sono donne molto istruite, che non si interessano solo di faccende famigliari e domestiche».
Però anche le famiglie possono essere un incubo?
«Assolutamente sì. Però a me interessa anche l'aspetto sociologico, considerare le famiglie e la società che sta loro intorno, il contesto politico».
Perciò il tema della discriminazione di classe è così forte, in questo romanzo?
«È un tema molto serio. In quell'epoca esisteva la schiavitù sessuale, nel Sud degli Stati Uniti: era una questione di classe e anche razziale. Le donne non votavano. Perfino dopo la guerra civile, gli uomini e gli schiavi liberati potevano votare e le donne no: una ingiustizia totale. Anche oggi, nell'estrema destra americana c'è chi pensa che le donne non debbano votare...»
Come ha affrontato l'argomento?
«Mi interesso da sempre alla storia americana. E la storia dell'America è una questione di lotte di classe, fra chi possiede la terra e chi non ce l'ha. Sono in parte irlandese, dal ramo paterno: molti irlandesi venivano in America come servi a contratto, come la protagonista del libro, Brigit, e sua madre; se non potevi pagarti il viaggio, poteva anche funzionare, ma era pessimo per i figli, che di fatto venivano venduti, come appunto Brigit. Anche se, a differenza dei figli degli schiavi, che appartenevano al padrone, a 18 anni loro potevano pagarsi la libertà».
Come è stato dare voce a un personaggio così pessimo come il dottor Weir?
«Il mio focus primario è su Brigit: lei e l'altra donna, Gretel, sono le mie portavoce. Il dottore è l'oggetto del racconto: è ridicolo, ma ha il potere, perché è un uomo; non sa nemmeno che cosa debba fare, è Gretel ad avere le idee per curare le pazienti, ma alla fine è lui a diventare famoso».
Scrive da sempre moltissimo. Ha una routine?
«Sì. Cerco di cominciare presto tutti i giorni, alle sette del mattino e poi vado avanti per il resto della giornata; mi interrompo per una lunga passeggiata. Ho sempre amato correre e lo faccio ancora, ma non tanto come prima; anche se correre, come nuotare, è meraviglioso. Oggi faccio soprattutto lunghe camminate: sono perfette per lo spirito».
E dove trae ispirazione per raccontare così tante storie?
«Raccontare storie è qualcosa che risale alle origini dell'umanità, indietro nel tempo. Fa parte della nostra tradizione. A volte l'ispirazione arriva dalla mia stessa vita; ultimamente sono molto interessata alla storia della medicina, anche per via del mio secondo marito».
C'è qualcosa di cui non si è ancora occupata?
«Beh, sto lavorando su qualcosa in questo momento. È un dilemma morale: se hai la prova che qualcuno stia abusando di un bambino, che cosa fai?, come ti comporti? Se fai delle accuse rischi di finire nei guai, ma qualcuno sta facendo del male a un bambino, quindi come agisci?».
Cos'è la letteratura per lei?
«È parte della mia vita. All'università insegno sia letteratura, sia scrittura. Scrivere è molto importante per me, ma anche insegnare lo è, ed è molto piacevole».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.