MAZZARELLA «Io, Gadda e Milano»

Lui fissa l’appuntamento al bar del teatro, la sede provvisoria del Franco Parenti di via Cadolini che, per una di quelle misteriose coincidenze suscitate ad arte dal palco - scenico, somiglia come una goccia d’acqua allo spacccato immaginato da Fercioni per le recite della «Leggenda del santo bevitore», lo splendido racconto di Joseph Roth che Piero Mazzarella (perché è di lui che si tratta) interpreta in questi giorni deliziando il pubblico con quella sua voce di ruggine e di vento che ha dato vita ai personaggi più estrosi ed enigmatici della scena milanese. E anche se, a vederlo a distanza ravvicinata, più che stanco sembra perduto mentre sogguarda sornione la tazzina di caffè che gli sta davanti, l’impressione immediatamente svanisce non appena fa scorrere a uno a uno i grani del suo lunghissimo detto e contraddetto su Milano, la città di cui è l’emblema vivente dopo il Biscione e la Madonnina.
Cosa la lega da sempre a Milano, caro Mazzarella?
«Non potrei vivere in nessun’altra città. Qui sono nato, qui ho avuto i miei primi successi, qui sono nati i miei figli - sono cinque, sa? - e solo qui, nonostante tutto, si respira l’aria che ci unisce per invisibili fili alla vecchia Europa».
Possibile non abbia mai provato l’impulso di andarsene?
«Deve pur restarci qualcuno che faccia vivere il nostro dialetto. Che purtroppo, fuori dai nostri confini, non si parla più. Noi non siamo come i veneti che parlano tranquillamente la lingua di Goldoni dalle Alpi fino all’Australia. Loro sì che han fatto della loro parlata un patrimonio inestimabile, mentre noi...»
Noi?
«Noi che abbiamo un respiro più ampio, abbiamo calato le braghe. Tanto è vero che non ci ricordiamo più l’origine delle parole che ci escono di bocca. Eppure, se ci fermassimo ad analizzarle, quante cose scopriremmo e quanto del nostro patrimonio sommerso lasceremmo in eredità ai giovani!»
Può farmi un esempio?
«Adesso che la nebbia ci ha quasi del tutto abbandonato, la nuova generazione quando la bruma vela ogni cosa addirittura pensa che scenda dall’alto! Quando in realtà sale dal fondo delle valli, anzi dai rivoli d’acqua. Ha mai riflettuto al nome che le abbiamo dato? Si chiama sighèra o no?»
Certamente, ma non vedo...
«Vedrà subito, non ne dubiti. Sighéra fa rima con riséra, ossia la risaia. Che è la sorgente, la matrice della nebbia quando si alzava come un miraggio dalle gambe ben tornite delle mondine, prima che da noi le risaie sparissero per essere poi confinate in Piemonte. Quanta ignoranza c’è in giro! E quanto poco sanno i giovani della nostra storia!».
Sarà per questo che Mazzarella si è addirittura sdoppiato e, per far conoscere i grandi autori della letteratura milanese, non appena può racconta, spiega e chiosa a chi voglia starlo a sentire l’«Adalgisa» di Gadda alla Biblioteca Braidense?
«La dico e la ridico con immenso piacere. Anche perché, modestamente, ho trovato una chiave personalissima per intrattenere il pubblico».
Qual è?
«Tutte le volte che è stata messa in scena, l'Adalgisa è sempre stata raccontata in prima persona dalla protagonista. Mentre io, stavolta, narrandola dal punto di vista del “pover Carlo”, marito della signora che cantava al Fossati, rimetto i puntini sulle i e, quando capita, mi identifico persino con l’ingegnere ossia il Carlo Emilio che le ha dato vita».


Tutto questo a onore e gloria di Milano, non è vero?
«Già. Come ai bei tempi di Telemilano, quando lavoravo alle
dirette dipendenze di Berlusconi che allora organizzava i treni dei bambini per portarli al mare».

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