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McCarthy è stato ispirato da Maria

La protagonista Alicia, come la Vergine, si fa carico del destino di un mondo. Il nostro

McCarthy è stato ispirato da Maria

Cormac McCarthy ha scritto un romanzo «mariano». Accidentalmente, Stella Maris (Einaudi, pagg. 194, euro 18,50; traduzione di Maurizia Balmelli) è una «casa di cura per pazienti psichiatrici medicalizzati», sita a Black River Falls, Wisconsin. Di fatto, «Stella Maris», stella del mare, è la traduzione - per etimologia scistosa: il linguaggio fermenta fraintesi - che Girolamo fa del nome ebraico Maria/Myriam. La madre di Gesù, nell'immaginario innografico, distilla la strada, è stella ai naviganti - il cristianesimo: epopea di pescatori per impervie acque -, luce nel caos primordiale. «Ave maris stella,/ Dei Mater alma/ atque semper virgo/ felix coeli porta»: Maria, stella del mare, chiavistello del cielo, cifra per comprendere i misteri divini.

Presso la «Stella Maris», nella finzione ordita da McCarthy, è ricoverata Alicia Western, ventenne dai tratti mariani. Alicia è di origine ebraica, è bellissima, virginea e virile, anomala fin da bimba; a dodici anni subisce un annuncio per allucinazioni («la sensazione che ci sia qualcosa che non hai capito continuerà a perseguitarti a lungo»), è invasa dal dio della matematica. Laureata a sedici anni, scoscesa negli abissi della mania, Alicia travalica ogni linguaggio: quello matematico - «da molto tempo penso che le verità fondamentali della matematica debbano trascendere il numero» -, quello alfabetico, terribile e puerile, il preludio al secolare massacro umano («L'arrivo del linguaggio è stato come l'invasione di un sistema parassitario... La straordinaria utilità del linguaggio lo trasformò in un'epidemia folgorante... Il cervello non aveva la minima idea di quello che lo aspettava»). Anche Maria, la madre di Gesù, non sottostà alle norme del linguaggio umano: è la donna che, silente, insoluta, aderisce al sì. L'ospedale psichiatrico, d'altronde, pare l'anticamera dell'unico Paradiso possibile, alcova di un incubo bianco; il «dottor Cohen», a cui Alicia rivolge i suoi ispirati, isterici monologhi, è una specie di Arcangelo Gabriele.

L'ultimo libro di Cormac McCarthy, Stella Maris, scritto a dittico insieme a The Passenger (legato, ma non analogo), è un romanzo terminale. Il dialogo tra Alicia e il suo dottore, scandito in sette stazioni - i sette giorni della creazione -, predilige la via violenta: nessun intento narrativo, polluzioni filosofiche - primeggia Wittgenstein -, teoremi matematici - primeggiano Frege e Gödel -, l'ordito che si sfilaccia e si ricompone secondo l'arte della fuga. In uno dei momenti più intensi del libro - pagine 60-61 - Alicia racconta di aver tentato di suonare un Amati. Attacca la Ciaccona di Bach. Non riesce a procedere. Esplode in un trionfante pianto. «Seduta lì sul letto con l'Amati tra le mani, talmente bello da sembrare irreale». E poi quella frase, che sembra raccogliere il sunto di Alicia, stella maris del romanzo americano: «Che capolavoro è l'uomo».

Chi legge McCarthy è abituato alla formula del dialogo: alcuni tra i più intrepidi esempi puntellano Cavalli selvaggi e Città della pianura; Sunset Limited è un romanzo scenico - poco riuscito, parere mio - in cui un bianco e un nero chiacchierano dei massimi sistemi. Stella Maris è qualcosa di più. L'interlocutore di Alicia non dialoga, interroga; i riferimenti letterari diretti - a dar retta alle ipotesi di Harold Bloom sull'«angoscia dell'influenza» - sono il monologo di Molly nell'Ulisse di Joyce e l'orda retorica, glossolalica, del capitano Achab in Moby Dick. La lotta romanzesca, invece, è con due libri-totem di William Faulkner: Mentre morivo - strutturato in 59 monologhi pronunciati da 15 personaggi - e Requiem per una monaca. A differenza di Faulkner, però, McCarthy non ha interesse a sviscerare la canicola sociale, i finimenti della follia, l'anima; vuole dire l'ultima parola sul mondo. Vuole morire scrivendo l'ultimo romanzo possibile. E l'ultimo romanzo possibile si pone sotto la stola della Vergine, perché il Verbo viene ad annientare ogni verbo, l'alfabeto è inghiottito da ogni singola, geroglifica ferita inferta sul corpo del Figlio, il linguaggio è colpevole della morte del giusto. Stella Maris è pari al Polittico della Misericordia di Piero.

Ambientato nel 1972, il romanzo di Cormac McCarthy dice l'iniquità della scienza. Le scoperte fisiche, le volute matematiche, i labirinti della logica hanno ideato, sulla carta, un universo perfetto, risolto, calcolabile: l'atomica ha disfatto tutto. Il co-protagonista del libro, per così dire, è Oppenheimer, collega del padre di Alicia («Pensava che l'intelligenza di Oppenheimer non fosse del tutto sotto controllo. Lo riteneva capace di prendere decisioni sbagliate»). Il giudizio sul Progetto Manhattan - visto, qui, con la sgradevolezza delle cose potenti, senza le caldane hollywoodiane del film di Nolan - è letale: «Chiunque non capisca che è uno dei fatti più significativi nella storia dell'umanità pecca di disattenzione. Quel programma se la gioca con la scoperta del fuoco e del linguaggio. È come minimo al terzo posto ma potrebbe anche essere al primo. Non lo sappiamo ancora, tutto qui. Ma è solo questione di tempo». Hiroshima è un Big Bang a contrario.

Nel regno insensato, il nostro, in cui non si placa l'urlo dell'innocente al massacro, la sola via è la redenzione per follia, il suicidio, l'incesto. Alicia Western - carisma inscritto nel nome: Alicia è Alice che insegue il Bianconiglio, secondo il percorso classico del Magnum Opus alchemico - si fa carico del destino di un mondo (l'Occidente, Western), come Maria, figlia del suo Figlio, sigilla e disintegra il vecchio mondo, è figura della nuova Eva. Maria è la prima donna del tempo nuovo, Alicia è l'ultima: l'incesto - immaginato, mai consumato, con l'amato fratello Bobby, «Ossa delle mie ossa... Eravamo tipo gli ultimi sulla terra. Potevamo scegliere di aderire alle credenze e alle usanze dei milioni di morti sotto i nostri piedi o potevamo cominciare da capo» - è un pellegrinaggio gnostico. Cormac McCarthy ricapitola spesso nei suoi libri i documenti canonici e criptici dello gnosticismo cristiano: Stella Maris ricalca il ritmo dialogico della Pistis Sophia e del cosiddetto Vangelo di Maria, di cui recupera alcuni lacerti sapienziali («tutte le creazioni sussistono l'una nell'altra e saranno nuovamente dissolte nelle proprie radici»). Quando Alicia sussurra, «penso che secondo una visione più spirituale la grazia si trovi nell'anonimato», sembra però ripetere Charles de Foucauld: «Il nostro annientamento è il mezzo più potente che abbiamo per unirci a Gesù e per fare il bene delle anime». Fare di sé un'atomica.

Alicia, stella maris, chiodo luminoso nel niente («In principio c'è sempre stato il nulla. Le novae che esplodevano in silenzio. Nell'oscurità assoluta. Le stelle, le comete fugaci»). L'ultima spoliazione è letale: vivere in latitanza a questo mondo - «Ho sempre pensato... che morire senza che nessuno lo sappia fosse la cosa che più si avvicinava a non essere stati qui» -, calibrati in un abbraccio di bestie: «Ogni tanto di notte gli animali sarebbero venuti fino al limite del fuoco... sarebbero venuti e mi avrebbero portato via e sarei stata la loro eucarestia. E questa sarebbe stata la mia vita. E sarei stata felice». Ci si incarica del prossimo divenendone il pasto, sparendo. In uno dei passi più conturbanti del Vangelo di Marco è scritto che Gesù «stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano» (1, 13).

Come se la natura del Figlio sia disabitare l'umano, disinibirlo, congiungersi alla bestia e all'angelo, sfinge celeste.

Così si scrive l'ultimo romanzo della letteratura occidentale. Questo libro è un'ostia: va inghiottito.

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