Teatro

Medea, così rapace da essere bellissima. Un mito "umano" in lotta con la vita

La tragedia di Euripide si ripete 2500 anni dopo. Con la stessa follia e la stessa forza del testo

Medea, così rapace da essere bellissima. Un mito "umano" in lotta con la vita

Siracusa è un luogo caro agli dèi: il suo teatro, appoggiato sui fianchi del colle Temenite, è un'antichissima area di culto. Ma stasera, che va in scena la Medea del greco Euripide, tragedia di una donna scaltra, molto astuta Medea, «medomai» che sovverte le regole della famiglia, della città e della civiltà, la scena è tutta per gli uomini. Sono loro con le loro passioni - più forti della ragione - a muovere il mondo. Gli dèi, per una volta, non intervengono, assistono.

Gli spettatori che assistono alla Medea al teatro greco di Siracusa in queste serate umane, troppo umane sono oltre 4500 a ogni rappresentazione. Quasi il 40 per cento è sotto i venti anni, la coda lunga dell'anno scolastico, circa il 7 per cento sono stranieri - inglesi, americani, francesi, tedeschi e austriaci - che seguono il testo con l'audioguida, e il 75 per cento del bilancio dell'Inda, l'Istituto nazionale del Dramma antico di Siracusa che produce gli spettacoli, è coperto dai biglietti venduti. Un modello. Si è debuttato a metà maggio e da allora Medea va in scena alternandosi, sera dopo sera, al Prometeo di Eschilo e alla Pace di Aristofane, sold out da settimane, diciotto spettacoli in tutto, fino alla fine di giugno. E ogni volta il pubblico tributa il trionfo. Thríambos.

Trionfo per la produzione (l'Inda è un'eccellenza internazionale), per la regia di Federico Tiezzi (che rispetta il senso dell'opera: noi siamo abituati a mettere in scena, i greci a togliere), per la nuova traduzione del testo, curata appositamente da Massimo Fusillo, un normalista, oggi docente di Letterature comparate, e quando sostituisce il tradizionale «infame» che Medea rivolge a Giasone con un «bastardo» molto più appropriato per la coppia d'oggi, la cavea esplode. E trionfo per loro, gli attori, nei cui personaggi anche noi ci rivediamo: la famelica e terribile Medea, Laura Marinoni, con il lungo manto ricoperto di piume e il copricapo rapace; e poi l'arrivista Giasone, Alessandro Averone; Creonte, che salta sul tavolo con la maschera di coccodrillo pronto a sbranare «Me-de-a!»; i due bambini in costume d'agnellino, destinati senza scampo al sacrificio, innocenti e silenziosi - the silence of the lambs e il pedagogo di Riccardo Livermore, «figlio di» (il padre Davide, regista di culto, ha ricevuto proprio qui il premio «Eschilo d'Oro 2023») e la nutrice, Debora Zuin, che apre la scena, trascinando una valigia enorme, perché anche la sua padrona Medea, a suo modo, è una esule in terra straniera. È lei a raccontare l'inizio del mito, una storia antica che riascoltiamo stasera e che andò in scena la prima volta ad Atene nel 431 a.C., 2450 anni fa. La tragedia di Medea. «Oh, nave Argo! Quanto vorrei che non fosse riuscita a oltrepassare le rocce oscure...».

Medea, donna esperta di magie e principessa discendente dal Sole, proveniente dalla Colchide, che è la Turchia di oggi, terra incognita e preistorica, ha tradito la famiglia e la sua patria («la cosa più cara dopo i figli») per amore del greco Giasone, simbolo della legge e della civiltà, che lei ha aiutato a conquistare il Vello d'oro. Ma appena arriva a Corinto, in terra ostile, è già abbandonata per un altro letto, quello di Glauce, figlia del re Creonte, un nuovo matrimonio che darà a Giasone - un vero politico denaro, potere e successo. «Noi donne siamo le più infelici fra tutte le creature che esistono e pensano!», piange Medea. «Per prima cosa dobbiamo comprarci a peso d'oro un marito, che poi diventa il padrone del nostro corpo: e ciò è senza dubbio il male peggiore. E poi c'è un rischio enorme: sarà buono o cattivo?». Medea pur di vendicarsi del marito - ecco la domanda che risuona da due millenni e mezzo in Occidente può arrivare a uccidere i propri figli?

Oggi si chiama «sindrome di Medea», ed è la tendenza da parte di una madre a isolare l'altro genitore, allontanandolo dai figli. Il figlicidio è una extrema ratio, ma le dinamiche marito-moglie non sono cambiate dai tempi di Euripide, nemmeno oggi, in epoca di famiglie allargate e comuni queer (anche se, certo, il verso «Io soffro così tanto perché io li ho partoriti», sdoganato l'utero in affitto, non avrebbe la stessa forza).

E infatti altro trionfo: dello scenografo Marco Rossi - tutto accade dentro una reggia che è un salotto alto-borghese, anni Trenta o anni Novanta o Duemilaventi è uguale, su un pavimento-scacchiera, tutto bianco e nero, mobili di design, più minimal che regali. E al centro di tutto, senza traslocare inutilmente nel moderno, un semplice tavolo attorno al quale cucina, tinello, salotto: nulla cambia, è un paradigma marito e moglie, senza distinzioni di rango o di epoca, urlano, litigano e si rinfacciano tradimenti, bugie, rabbie, alimenti. Chi si prenderà i figli?

Medea se li porterà via, cadaveri, su un carro del Sole alzato da un'enorme gru, là in fondo, tra il palcoscenico e il bosco del teatro greco di Siracusa, mentre ormai - sono le nove di sera - cala la luce e si accendono i riflettori. L'atto più empio che una donna può compiere, è compiuto.

Cose degne di nota di una Medea esemplare. Il crescendo dell'intero spettacolo, che dura due ore, la lunghezza del giorno che Medea ottiene dal re Creonte per restare ancora in città e compiere la sua vendetta: musiche, recitazione e testo seguono l'intensificazione del pathos. La soluzione scenica della strage: soltanto laser rossi che avvolgono il Palazzo mentre fuori dalla scena, ob scena, si sentono le interminabili urla dei figli scannati che sovrastano il coro. Le musiche, tra le quali si riconoscono brani di Angelo Badalamenti da Mulholland Drive, la Lacrimosa di Zbigniew Preisner per «il giorno delle lacrime» e Gretchen am Spinnrade (Margherita al telaio) di Franz Schubert dal Faust. E poi: il coro delle serve che, usando gli stracci rossi per pulire, sporcano il pavimento della mattanza.

«Fammi toccare, per gli dèi, la tenera carne dei mie figli», implora Giasone. «No, non puoi.

Ormai parli al vento», risponde Medea, maga sapiente e donna spietata.

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