
Bruno Monsaingeon è un violinista e regista francese. Nel 2020 uscì, in Francia, il suo Les bémols de Staline, un preziosissimo affresco della vita musicale in Unione Sovietica che ora giunge anche nelle librerie italiane: I bemolli di Stalin (Zecchini Editore, pagg. 225, euro 29).
Monsaingeon, dialogando con il grande direttore d'orchestra russo Gennadij Rodestvenskij, parte da una osservazione: ovverosia che "il più grande valore a disposizione dei musicisti sovietici sia stato quello che deriva direttamente dall'ostacolo dell'isolamento, fattore di stimolo della mentalità creatrice". Il libro, dunque, grazie alla testimonianza di Rodestvenskij, affronta con passione e dovizia di particolari quell'enigma che soggiace la coesistenza di un regime di terrore e di una ricchissima e altissima attività artistica. Stalin frequentava spesso il teatro Bolshoi. Ad alcuni titoli non mancava mai: La dama di picche di Cajkovskij, Fiamme di Parigi di Asafiev dall'argomento rivoluzionario, Boris Godunov di Musorgskij. "Si accomodava in un palco laterale, dietro a un vetro antiproiettile. Il pubblico non poteva vederlo, contrariamente ai cantanti e ai ballerini, che dalla scena riuscivano a scorgerlo. Non frequentava gli artisti", racconta Rodestvenskij che spiega come Stalin avesse la necessità di costruirsi l'immagine di vera guida suprema: "Doveva prima di tutto dare l'impressione di essere competente in tutto, dico tutto: in strategia militare, letteratura, politica estera... e musica". Per questo, le manomissioni e riscritture dei libretti erano all'ordine del giorno. Interventi che, talvolta, non si limitavano ai testi: Stalin, che andava anche ad assistere alle prove, una volta si lamentò con il direttore d'orchestra perché il primo atto dell'opera Ivan Susanin (che altro non era che la riscrittura di La vita per lo Zar di Glinka) "aveva pochi bemolli" (ecco il titolo del libro). Samuil Samosud, che occupava il podio, ringraziò per il consiglio, assicurò che avrebbe comunicato agli orchestrali di aggiungere bemolli e Stalin fu appagato.
In merito al controllo operato dal Pcus, Rodestvenskij spiega che occorre fare una distinzione. Negli anni Venti, e fino agli inizi degli anni Trenta, vigeva "un'atmosfera di libertà che, si pensava, potesse favorire la nascita e lo sviluppo di un'arte nuova, sinonimo di arte rivoluzionaria" tanto che autori contemporanei come Berg o Milhaud trovavano posto nei cartelloni. Dagli anni Trenta, però, con l'irrigidimento del controllo del partito, emerse una sola linea: "Qualsiasi tentativo di esprimere o rappresentare un modello ideologico e un mondo nuovo, per il semplice fatto che ne sarebbero inevitabilmente derivate nuove forme, veniva immediatamente proibito. Per il potere, era qualcosa di inaccettabile. Esistevano direttive che dovevano essere eseguite senza alcuna discussione, punto e basta! All'arte rivoluzionaria fu progressivamente sostituita un'arte grigia, unificata, stereotipata. L'arte, così come la intendevano i dirigenti, non poteva in alcun modo vestirsi di colori più vivaci di quelli della dottrina del Partito. Privata di ogni confronto, aveva un solo compito: sostenere la dottrina del Partito e contribuire alla sua realizzazione sotto forma di arte di propaganda". Di lì a poco iniziò la battaglia contro i compositori non allineati e la censura degli artisti degenerati fino al decreto del 10 febbraio 1948: "Molti compositori sovietici si sono smarriti nella ricerca artificiale di una presunta novità. Così facendo hanno perso il contatto con le masse, la loro musica è diventata totalmente estranea ai gusti e alle esigenze artistiche del popolo".
Rodestvenskij fu autorizzato a viaggiare all'estero, sia pur controllato dai cosiddetti "accompagnatori" con il ruolo di delatori. I concerti all'estero erano anche vincolati alla condizione che si inserisse in programma un'opera sovietica tra quelle degli autori raccomandati dai membri della commissione del partito: "La loro ignoranza musicale era tale che un giorno proposi di suonare a Amsterdam il 21° Concerto per contrabbasso e orchestra di Beethoven, o l'Ouverture per la festa del lavoro di Debussy, su testo di Karl Marx. O qualunque altra cosa mi passasse per la testa. Tutto questo con la massima serietà e su carta ufficiale. Consegnavo un programma, dopodiché facevo come volevo". In fondo al libro, Rodestvenskij racconta ulteriori aneddoti come la consultazione di nascosto della proibitissima Petruska di Stravinskij ricopiando a mano i passaggi più interessanti.
Rodestvenskij, prodotto dell'Urss, si paragona a quello che le vigne di Bordeaux fanno con il terreno pietroso: "Le radici della vigna dovevano aggirare gli ostacoli, lottare per farsi strada verso le profondità. È dalla lotta che nasce un buon prodotto".