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Meno Stato, più libertà. La lezione di Martino

Nicola Porro ricorda il maestro in un libro. Grande economista e amico pieno di ironia

Meno Stato, più libertà. La lezione di Martino

Se si volesse adottare lo spirito pragmatico dei liberali e parlare di economia non solo a beneficio degli iniziati, si potrebbe descrivere la situazione della finanza pubblica italiana con grande semplicità. Lo stato, cioè l'apparato burocratico che tanto temiamo, nel 2021 ha speso poco più di mille miliardi di euro. Evidentemente questa montagna di soldi non esce dalle tasche dei burocrati. Eppure ogni volta che si vota una legge di spesa, sembra quasi che ci stiano facendo un favore. Parafrasando Alberto Sordi e il marchese del Grillo: la procedura è molto semplice, loro i soldi non li cacciano, ma noi, i conti, alla fine li paghiamo. A fronte di questa spesa mostruosa (che è pari a più della metà di quanto tutta l'Italia produce in un anno) le entrate tributarie, cioè quelle che arrivano da prelievi diretti e indiretti sui cittadini italiani, sono di poco superiori ai 500 miliardi di euro. In buona sostanza l'apparato statale non solo spende soldi non suoi, ma anche quattrini che non ha. Tra poco capiremo come.

Torniamo a quel giorno del 1988. Quello del ventesimo congresso del Partito liberale italiano a Roma. I 32 minuti di Antonio Martino, che rappresentano una vera lezione da tenere bene a mente. Nell'immaginario collettivo gli anni '80 sono il decennio delle meraviglie: quando i soldi giravano facilmente, la lira aveva un potere d'acquisto reale, le esportazioni volavano grazie alla svalutazione della moneta, i consumi erano alle stelle. E, si badi, questo immaginario sugli anni '80 esercita il suo fascino potente su molti italiani, non su una cerchia ristretta di ricchi e benestanti come si potrebbe erroneamente pensare. D'altronde Sergio Ricossa, uno dei grandi intellettuali liberali, amico di Martino, ripeteva spesso: «Una idiozia ripetuta abbastanza a lungo da abbastanza economisti diventa un dogma, e ciò non è scientifico».

Il fatto che il mercato occorra correggerlo in continuazione, grazie all'intervento di sapientissimi burocrati e decisori pubblici che sanno cosa sia meglio per noi, è diventato un dogma. Antonio Martino quel giorno a Roma, e poi numerose volte in futuro, cercò di spezzare quel dogma, con la forza dei numeri. Gli stessi che oggi gli danno ragione, ma che allora nessuno aveva voglia di ascoltare. Spesa pubblica, fiscalità, disavanzo, indebitamento, concorrenza: un attacco a tutto campo.

Disse il professore: «Siamo passati da un costo del settore pubblico pro capite a prezzi costanti pari a 1.732.000 lire nel 1960 a uno di 9.060.000 lire nel 1987. L'inflazione non c'entra. Nel 1960 l'italiano medio lavorava fino al 29 aprile per lo stato, nel 1987 fino all'8 luglio... L'indebitamento è passato da 158.000 miliardi nel 1978 a oltre un milione dei miliardi oggi... Ai tassi di cambio attuali il debito interno pubblico italiano è superiore all'intero debito estero di tutti i Paesi dell'America Latina presi assieme. La sola spesa per interessi passivi nel 1987 è stata superiore a quella sostenuta dal settore pubblico allargato di dieci anni fa... Questa montagna di debiti ha sclerotizzato l'economia. Pensate a quante imprese si sarebbero potute creare se quel milione di miliardi fosse stato destinato a scopi produttivi... Dal 1981 al 1987 con l'aumento di oltre il 130% delle spese pubbliche totali, il numero complessivo degli occupati è aumentato di sole 293.000 unità, mentre la forza lavoro cresceva di 1.230.000. In soli otto anni, cioè, siamo riusciti a creare quasi un milione di disoccupati in più... Nel 1987 la retribuzione netta ha costituito solo il 54,8% del costo del lavoro, il che significa che la fiscalità in tutte le sue forme ha quasi raddoppiato il costo delle assunzioni rispetto alla retribuzione netta».

Per dare un termine di paragone, le politiche liberali di Reagan nel medesimo lasso temporale avevano creato 15 milioni di posti di lavoro in più in America. Riducendo non solo la disoccupazione, ma anche le sacche di maggiore povertà. Martino già nel 1988 aveva denunciato la differenza tra stipendi netti e costo aziendale (il cosiddetto cuneo fiscale) che oggi, con ritardo mostruoso, tutte le forze politiche dicono di voler abbattere.

Anche la questione meridionale veniva, in modo lungimirante, prevista dal messinese Martino: «Proprio nel Mezzogiorno, dove maggiore è stato l'intervento pubblico, più evidenti ne sono le conseguenze negative. Lo statalismo ha prodotto distorsione nell'uso delle risorse, disgregazione del tessuto sociale, sprechi, corruzione diffusa, per non parlare di una fiscalità oppressiva, iniqua, farraginosa, caotica e indegna di un Paese civile!». Ripeto: questo discorso fu pronunciato da Antonio Martino verso la fine di un decennio, gli anni '80, associato nei ricordi dei più al benessere diffuso, al consumismo spinto, persino a un certo compiacimento edonistico. Anni di vacche grasse, come si suol dire, che sembrava non dovessero finire mai. Ma, come ci insegna la favola di Esopo, entro pochi anni alle cicale italiane sarebbe stato presentato un conto salatissimo. E lo avrebbero pagato tutti i cittadini.

D'altronde in America e in Regno Unito si stava costruendo un'economia completamente diversa: quella basata su liberalizzazioni, riduzioni fiscali, e privatizzazioni, che da noi all'epoca si sognavano. Quando poi Martino dovette passare dalle parole ai fatti, cioè quando nel 1994 entrò a fare parte del primo governo Berlusconi, ricevette la telefonata di congratulazioni della Thatcher in cui le disse: «Non sarà facile fare una rivoluzione liberale in Italia. Però noi abbiamo una cosa che lei, quando diventò primo ministro, non aveva». «Quale?» chiese la Lady di ferro. «Il suo esempio!».

Ecco, Martino negli anni '80 aveva capito la bontà di quelle politiche, urlava la follia delle cicale italiane, e sapeva che quella sarebbe stata la strada giusta. Ma il treno era passato e quando si fermò in Italia, con Berlusconi, il suo tragitto fu davvero breve. E oggi, che sembra passato un secolo, sul tavolo ci sono le medesime questioni irrisolte: aumento della spesa pubblica che non crea alcun posto di lavoro anzi li distrugge; una fiscalità che si mangia circa la metà delle retribuzioni rendendo di fatto poveri i salariati; entrate fiscali che crescono, senza fermare la corsa del debito.

Pubblicato per Piemme

da Mondadori Libri S.p.

A.

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