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"La mia Georgia dalla grande bugia dell'era sovietica al sangue dei conflitti"

L'autrice racconta le vicende di quattro amiche che, dal 1987 al 2018, attraversano la storia caotica del Paese: "Credevamo che i problemi si sarebbero risolti con l'indipendenza. Invece..."

"La mia Georgia dalla grande bugia dell'era sovietica al sangue dei conflitti"

Nino Haratischwili è nata a Tbilisi nel 1983. È di pochi anni più giovane delle quattro protagoniste di La luce che manca (Marsilio, pagg. 700, euro 24). Nel suo nuovo romanzo, che la scrittrice georgiana presenterà oggi a Pordenonelegge (ore 17, Spazio Gabelli), Qeto, Nene, Ira e Dina sono quattro amiche che crescono nella Georgia ancora sovietica, vivono l'euforia dell'indipendenza e i sanguinosi anni a seguire, e diventano donne durante la crisi del Paese. Si ritrovano a Bruxelles nel 2018, ormai cinquantenni, a una mostra fotografica che celebra Dina, il cuore ribelle del gruppo che - scopriamo quasi subito, fra i numerosi flashback del romanzo - si è uccisa. Con le loro vite, fra amori, delusioni, sofferenze e violenze a volte terribili, Nino Haratischwili ci fa attraversare la storia del suo Paese, dominata dal crollo dell'Unione sovietica. L'autrice, che vive da anni in Germania, dove ha studiato da drammaturga e regista teatrale, è arrivata finalista due volte al Deutscher Buchpreis e con il romanzo precedente, L'ottava vita (per Brilka) (Marsilio 2020), da cui è in lavorazione una serie tv, è stata in lizza per l'International Booker Prize.

Nino Haratischwili, da dove ha tratto ispirazione per La luce che manca?

«Non ho avuto bisogno di ispirazione: racconto della mia giovinezza e della mia infanzia. Benché non si tratti di autofiction, e i personaggi siano inventati, è la mia esperienza: è il periodo in cui sono cresciuta, un'epoca molto significativa, e molto oscura, nella storia della Georgia».

Lei è un po' più giovane delle sue protagoniste.

«È vero. Però, quando mi sono trasferita in Germania, mi sono resa conto di come la mia giovinezza fosse stata molto diversa da quella delle mie amiche tedesche... Non ne ho parlato per anni, fino a che, dieci anni fa, ho iniziato ad analizzare che cosa sia successo e quale impatto abbia avuto sulle nostre vite. E così è nata l'idea di scrivere il libro, prima di L'ottava vita».

Perché una gestazione così lunga?

«È difficile spiegare quell'epoca, così politica e caotica insieme, ai lettori occidentali: è stata la fine di un'era, il crollo dell'Urss, della sua società e dei suoi valori. Nel Paese abbiamo vissuto una crisi enorme, durata oltre dieci anni. Ma, per raccontare tutto questo e come ci si sia arrivati, è necessario anche andare indietro nel tempo».

In quali anni si svolge il romanzo?

«Dal 1987 al 1999, con una estensione al 2018, quando le tre amiche rimaste si ritrovano a Bruxelles. Ma il cuore è intorno al '91, quando la Georgia ottiene l'indipendenza».

Che cosa è cambiato a quel punto?

«Tutto è cambiato. Già alla fine degli anni '80 erano iniziate proteste e rivolte, come in altri Paesi dell'area sovietica. Poi è avvenuto il massacro del 9 aprile '89, in cui ventuno persone sono state uccise: per noi, in Georgia, è il giorno del dolore. Ma il sangue e le violenze non si sono fermate, anzi, sono proseguite: ingenuamente, noi pensavamo che con l'indipendenza i nostri problemi sarebbero stati risolti, mentre è stato proprio dopo l'indipendenza che ne sono cominciati di nuovi».

Quali?

«Il conflitto etnico in Abkhazia, sostenuto dalla Russia e sfociato in una guerra. Una grave crisi economica, dopo che per decenni eravamo stati dipendenti dall'economia sovietica: i mercati sono crollati e noi non avevamo né soldi, né esperienza. Poi gli scontri tra gruppi politici, l'intervento di fazioni militariste... È stato un periodo di grande caos, in cui molte vite sono andate perdute a causa della guerra, della violenza, della droga, dell'alcol...».

Scrive che il Paese «da settant'anni celava dietro una maschera il suo vero volto» e che finalmente cadeva la «grande bugia». Quale?

«Tutto, nell'Unione sovietica, era una bugia. Era una dittatura, un regime crudele, in cui le persone erano oppresse e nessuno viveva la vita che voleva davvero vivere; e, nel contempo, si fingeva che fossimo tutti fratelli e sorelle e fossimo tutti felici, mentre nessuno lo era. Gli ideali e i valori sostenuti dalla Rivoluzione sono stati tutti traditi e milioni di persone sono morte: è stato un regime non meno sanguinario di quello nazista. Anche se la percezione dell'Occidente è spesso diversa, ma chi vuole sapere...»

C'è chi ancora lo ignora?

«In Germania c'è ancora un grosso vuoto di informazione su questo: molte persone non sanno che ci sono molti paralleli fra i due regimi, la stessa violenza e crudeltà. Poi, negli anni '60 e '70, il sangue è diminuito ma non le bugie. Si è sviluppata una corruzione enorme».

E dopo? La criminalità prende il sopravvento, come racconta nel romanzo?

«Era cominciato come un conflitto fra gruppi politici diversi, con grandi ideali per un futuro migliore; ma, in una situazione di anarchia, la criminalità si è infilata, perché era solo una questione di potere».

E oggi?

«Non c'è paragone con allora. Restano molti problemi, su tutti la relazione con la Russia, molto problematica, visto che il venti per cento del territorio georgiano è ancora occupato. Però la nuova generazione, nata nell'indipendenza, è più aperta mentalmente, più europea e più consapevole della società civile: una parola, quest'ultima, che non esisteva nemmeno nell'Urss, perché non esisteva l'idea che si potesse volere qualcosa per sé o che si potesse condurre una vita propria, al di fuori del partito».

Perché quattro amiche come protagoniste?

«Per me era importante scrivere di un'amicizia femminile: all'epoca il sistema era molto patriarcale e violento ma, se siamo sopravvissuti a quel grande caos, è stato soprattutto grazie alle donne. E poi volevo raccontare la Storia da una prospettiva molto personale: attraversare la storia di queste donne per mostrare come l'essere testimoni degli eventi e gli eventi stessi ci plasmino».

Uno dei temi cruciali è la libertà: qualcosa di cui - scrive - molti sproloquiano...

«Tutti concordiamo sul fatto che sia uno dei beni più preziosi, soprattutto ora che c'è una guerra nel cuore dell'Europa. Ma, in certi luoghi, le persone sono ancora costrette a pagare un prezzo molto alto per la libertà: e questo è ancora ben chiaro sotto i nostri occhi in Georgia. Quanto la libertà sia importante è dimostrato dalla minaccia della Russia, che è reale».

Perché c'è così tanto dolore nel romanzo?

«In quel tempo ci sono stati molti morti e molto dolore. Volevo che fosse un libro realistico, e come ricordare quell'epoca, come ci sentivamo, che cosa vedevamo e percepivamo, senza tutte quelle morti? Ogni famiglia, in Georgia, ha perso qualcuno. La mia non è una esagerazione: è come era».

Come è stato accolto in Georgia?

«Bene. L'ho presentato a giugno ed è stato emozionante, molte persone mi hanno detto: è la mia storia, è così che sono cresciuto...

Le nostre sono state una esperienza e una memoria collettive: il destino è individuale, ma i ricordi sono simili per tutti, perché tutti siamo stati colpiti e influenzati dalla guerra, dal crimine, dalla mancanza di lavoro, dalla violenza, dalla crisi. E per questo sento questo romanzo così mio».

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