Cultura e Spettacoli

Michael Jackson, «Thriller» e l'inno alla vita che nessuno riuscirà mai a distruggere

Il suo dermatologo, Arnold Klein al momento è indagato dalla polizia. Si scopre anche che Debbie Rowe, seconda moglie di Jackson e madre di due dei suoi tre figli, lavorava come infermiera proprio nello studio del medico che potrebbe essere addirittura il padre biologico dei primi due figli del cantante.

Per un 40enne dei nostri giorni Michael Jackson è stato il più grande showman di tutti i tempi, il massimo idolo musicale esistente sulla terra, ma anche il sogno di un bambino che, raggiunta la fama, diventa realtà.
Quando cantava e ballava «Thriller» era il 1982, io avevo 14 anni, lui 24 e la sua avventura musicale mi sembrava un sogno bellissimo: già nel '79 quel ragazzino e la sua musica mi erano entrati dentro come il trionfo della felicità attraverso il ritmo di «Don't stop till you get enough»: lo ballavo goffamente per le scale di casa, sperando di riuscire a muovermi come lui e provando un senso di vittoria assoluta, d'invincibilità che solo la musica esaltante riesce a infonderti anche se sei solo un bambino.
Con «Thriller» me ne stavo attaccata alla televisione come ipnotizzata dalla sua voce, ma soprattutto dalla forza dei suoi movimenti, dalla sua eccezionale capacità di ballare, di esprimere quello che aveva dentro attraverso il ritmo della musica trascinante, irresistibile: praticamente un lavoro per lui, ma il lavoro più bello del mondo pensavo io.
Erano gli anni '80. Quelli delle discoteche, delle giacche con le spalle imbottite, dei paninari e dei dark, dei Duran Duran e degli Spandau Ballets, degli inizi degli U2 e dei Simple Minds di Jim Kerr con canzoni indimenticabili come «New gold dream». «Thriller» s'impose in maniera dirompente, qualcosa di nuovissimo e irresistibile, con quei movimenti di gambe e bacini all'unisono, dal lupo mannaro del film fino alla risata finale di Vincent Price.
Ancora una volta Jacko aveva fatto centro: riusciva a comunicare tutta la sua gioia di vivere, stavolta giocando sul contrasto della sua gioventù e bellezza e dell'avvenenza della sua ragazza da una parte con il cimitero e i morti viventi dall'altra. La trama del suo video metteva paura, incuteva terrore, ma era una finzione: in realtà si trattava sempre di un inno alla vita. Due ragazzi al cinema e poi gli zombie, la morte, quella sensazione di normalità che travalica il reale e all'improvviso, non è più l'incubo dal quale ti puoi svegliare, ma diventa l'orrenda realtà da subire. Eppure è tuttora impossibile non aver voglia di alzarsi e muoversi: quella musica comunica voglia di andare, di fare, di travalicare confini e orizzonti, di muovere mondi, incontrare gente, voglia di vincere insomma.
Adesso qualcuno, tanti, potranno ribattere che gli ultimi anni, la fine di Mickael Jackson, niente hanno a che fare con la voglia di vivere e di lottare. Il personaggio suscita più tenerezza che esaltazione, un po' per le sue manie, un po' per quell'ala di misteriosa malinconia che sembrava non poter fare a meno di portarsi dietro. Il suo dermatologo, quel dottor Arnold Klein, firmatario di montagne di ricette mediche e che nel corso degli anni prescrisse al cantante farmaci di ogni tipo, al momento è indagato dalla polizia. Si scopre anche che Debbie Rowe, seconda moglie (dopo Lisa Marie Presley, figlia di Elvis) di Jackson e madre di due dei suoi tre figli, lavorava come infermiera proprio nello studio di Klein che potrebbe essere addirittura il padre biologico dei primi due figli del cantante. Avranno avuto un ruolo Klein e la Rowe nell'improvvisa scomparsa di Mickael Jackson? Forse non lo sapremo mai. Non saranno comunque questi oscuri personaggi a strapparci il sogno americano di Jacko.

Che resta il sogno della voglia di vivere.

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