«Le mie poesie? Suonano»

I l 13 ottobre 2006 commossero quattromila persone rappresentando in Duomo il “Poema della croce”. Lei, Alda Merini, poetessa candidata al Nobel, recitò per la prima volta come attrice nel ruolo di Maria. Lui, il cantautore Giovanni Nuti, da anni suo alter ego sui palchi dove mettono in scena elegie in musica cariche di pathos, interpretava Gesù. Il Poema è solo uno dei tanti progetti trasversali tra versi, musica e teatro che l’originale sodalizio porta avanti dal ’93, quest’anno culminati con la nota querelle di Sanremo allorché il brano Sull’orlo della grandezza, testo della Merini e spartito di Nuti, fu bocciato tra le polemiche. Oggi, invece, rieccoli invincibili sul palco della rassegna «Suoni Naviganti» di Villa Castelbarco a Vaprio d’Adda, a presentare i brani dell’ultimo album Rasoi di seta. Nel repertorio dei loro concerti, si alternano sinfonie intense e commoventi come La zanzara, Il mio amore ha quattro gatti, Le osterie o l’Albatros, ricordo dei lunghi pomeriggi in manicomio, a ritmi zigani dove la Merini, oltre a recitare, accenna persino passi di danza.
Signora Merini, il gran rifiuto di Baudo è acqua passata?
«Cosa vuole che me ne freghi, non sono mai stata né superba né permalosa. Se all’ultimo momento il signor Pippo non mi ha voluto avrà avuto le sue ragioni, per me non cambia nulla».
Anche perché la sua avventura nella musica va avanti spedita e con Nuti continuate a riempire i teatri, come avete fatto un anno fa allo Strehler. Come mai sente il bisogno di portare le sue poesie sullo spartito?
«La gente non ha chiaro il fatto che un poeta non vive sulle nuvole ma si confronta con il proprio tempo; è un po’ filosofo e un po’ giornalista e soltanto grazie alla curiosità, alla voglia di sperimentare, riesce ad arrivare al cuore degli altri».
Poi c’è stato l’incontro con Nuti, compositore e cantautore. È lui che le ha fatto scattare la scintilla?
«In parte sì, anche se io da ragazza già suonavo il piano. Con Giovanni c’è stato un innamoramento artistico a prima vista, un sodalizio perfetto nonostante la mia propensione alla solitudine. La sua musica riesce ad amplificare quello che è già presente nei miei versi. Il resto avviene quasi per magia. Ma ho vissuto anche qualche trauma».
Ad esempio?
«Mettere in musica i miei versi sul manicomio è stata una sorta di catarsi perché, dico io, come si fa a cantare il dolore? Però Giovanni mi è stato sempre vicino come un allievo amoroso e così, più che delle canzoni, sono nate delle leggende sonore».
Qual è stato il momento più toccante di questa vostra avventura?
«Sicuramente la rappresentazione del Poema in Duomo. C’era un pienone incredibile e moltissimi giovani, segno che nonostante tutto esiste un gran bisogno di religiosità nelle persone».
Lei è religiosa?
«A modo mio, ma non sono certo una bacchettona. Diciamo che la mia religiosità è maturata nel calvario del manicomio, anche se...»
Anche se?
«Guardando come va il mondo fuori, certe volte ne ho nostalgia. In manicomio non ho mai visto certe invidie e certe cattiverie, ma anzi tanta solidarietà. A volte penso che là dentro ero più libera di quanto non sia adesso»
Però esiste la poesia. Una salvezza no?
«Guardi che la scrittura non è mica una terapia. Eppoi oggi non è più come una volta, quando noi poeti eravamo in pochi, umili e bistrattati. Oggi la maggioranza di quelli che si mettono a scrivere lo fanno per fare soldi e successo, possibilmente subito. Non capiscono che per scrivere bisogna anzitutto sapersi perdere, mettersi in gioco dal profondo, anche con il rischio di finire in manicomio come è successo a me».
Lei continua ad abitare sul Naviglio.

Milano la trova una città poetica?
«Figurarsi. A parte il fatto che di milanesi non ce ne sono più, qui ormai è la capitale del consumismo, dell’egoismo e dell’indifferenza. Eppoi nei bar non si può fumare. E infatti non scrivo più».

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