D a quando, un anno fa, Milano si è aggiudicata l'organizzazione dell'Expo 2015, ha preso il via un'attesa ansiosa e quasi messianica, complice il momento economico non facile: l'Expo arriverà a rimpinguare le nostre tasche inaridite; l'Expo ridarà attrattività alla città; l'Expo restituirà a Milano l'identità perduta. La nevrosi dell'Expo si è estesa a tutti i malesseri della città, identità compresa; e quella di Milano è in piena fase di bonaccia. Tra i problemi affrontati dai docenti del Diap (Dipartimento di architettura e pianificazione) del Politecnico di Milano nella raccolta «Per un'altra città» (Maggioli), c'è anche quello delle radici e del carattere di Milano. Speriamo nell'Expo? «Non crede che sia preoccupante che Milano abbia bisogno di un evento esterno per pensare la propria identità?» rilancia Gabriele Pasqui, professore di Gestione urbana e curatore del progetto.
All'identità del territorio è dedicato «Le radici della città», il contributo di Corinna Morandi, che insegna Urbanistica al Politecnico. Fondamentale è il ruolo dell'architettura nel creare identità e senso dell'appartenenza a un territorio. «Oggi Milano è una città priva di narrazioni che ne descrivano il carattere», esordisce. E in passato? «Un logo di successo è stato quello della Milano capitale economica d'Italia, che è il titolo di un bel saggio del geografo Étienne Dalmasso. Quarant'anni fa, quando uscì il libro, era una visione accettata e condivisa. La nostra città era identificata come una capitale dell'architettura, della ricerca artistica d'avanguardia, del design e poi della moda. Quest'immagine ha avuto seguito per diversi anni, per poi incrinarsi, a mio parere, quando l'attenzione si è spostata al business e a un certo gusto dell'effimero e dell'immagine». La celebrata «Milano da bere» sarebbe al contempo l'apogeo e l'inizio della decadenza dell'identità milanese. Che ora è in piena crisi. «C'è da ricreare un'atmosfera, quel tessuto diffuso di ricerca e sperimentazione che connotava la città. Ancora adesso si visita l'architettura dei razionalisti, e d'altra parte noto scarsa attenzione alla spendibilità di questo patrimonio».
C'è quindi un problema di valorizzazione di ciò che può restituire un'immagine alla città: «Basta guardare il Qt8, un museo a cielo aperto dell'architettura contemporanea che nasce da un pensiero e da un'interpretazione del contesto. Tutti gli anni ci porto gli studenti e soffro nel vedere le casette di Zanuso trasformate in chalet tirolesi». Ma che cosa diede a Milano un'immagine così connotata in quegli anni? E oggi è possibile recuperarla? «Oggi si tende a pensare che il grande nome sia di per sé garanzia di una corretta decifrazione dello spirito del luogo. Molti dimenticano, per il passato, l'opera dei tecnici comunali che diedero a Milano un'immagine un po' understatement, non esibita ma profondamente radicata nel quotidiano. Penso a figure come Luigi Lorenzo Secchi, Ezio Cerutti, Arrigo Arrighetti, e come vede ho ricordato nomi pressoché sconosciuti al grande pubblico».
«Oggi, se si pensa all'avanguardia e alla ricerca, le città cool in Europa sono altre. Londra, Barcellona, Berlino, ad esempio». È vero, molti milanesi volano a Berlino e ne tornano entusiasti. Ma cos'ha che noi non abbiamo? «I giovani percepiscono il clima dinamico, meno impaurito e più friendly, malgrado sia una città più grande e più multietnica di Milano. Vivere a Berlino costa meno, e non è secondario. Dal punto di vista urbanistico, c'è stato un impegno grandioso: pensi solo al distretto di Potsdamer Platz, con il progetto di Renzo Piano che ha dato una struttura riconoscibile e, pur nella sua imponenza, ha prodotto un tessuto urbano vivibile. Tutto questo muta anche gli aspetti antropologici della città: la città è una protesi dell'uomo sociale». Veniamo a Parigi: di recente Marc Augé, il teorizzatore dei nonluoghi, ha confessato di essersi sentito più parigino che mai a bordo del metrò.
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