Milano ringrazia Pannella con 58 voti

Sarebbe ingeneroso, ora che Milano gli ha ufficialmente e brutalmente voltato le spalle, ironizzare sui 58 voti di preferenza raccolti da Giacinto Pannella detto Marco, candidato al Consiglio comunale nella lista che portava il suo nome in coabitazione con quello di Emma Bonino. L’uomo che inventò dal nulla il Partito Radicale, che fece irruzione nella politica italiana con una furia di rinnovamento di cui sarebbe stupido negare la portata storica, viene maltrattato dalle urne come un Carneade qualunque. La sua figlioccia Bonino - ma il termine figlioccia non rende fino in fondo il rapporto complesso, in un viluppo di sindromi di Elettra e di Stoccolma, che lega i due da trentacinque anni - incassa 835 voti, quattordici volte quelli di Marco.
E fin qui può accadere, perchè da un pezzo Pannella ha lasciato ad Emma vantaggi e svantaggi della ribalta. Ma crea sconforto scendere giù in giù nella lista radicale, e scoprire che surclassano il padre fondatore una sfilza di quisque de populo: chi sarà mai Maria Farina, 109 voti? E Lorenzo Lipparini, 104 voti? E Yuri Guaiana, 74? E ancora più doloroso è il confronto se si va a frugare nelle altre liste: prendono più voti di Pannella personaggi misteriosi come Daria Lagomarsino del Pd, la vendoliana Daniela Fantini, la pidiellina Daniela Jabes.
É una sorta di Cinque Maggio, il funerale politico di un gigante esiliato, quello che si consuma per il vecchio combattente nelle urne delle amministrative milanesi. Ma invece che starsene «percossa e attonita», la politica milanese se ne infischia, avviluppata in un vortice di modernità che fa sembrare le battaglie di Pannella roba di un’altra epoca geologica. E pensare che appena due anni fa Jas Gawronski, annunciando il suo addio al Parlamento Europeo, quando gli chiesero chi era il deputato italiano più famoso tra i colleghi di Strasburgo rispose senza esitazione: «Pannella».
Certo, ci si può aggrappare a abbozzi di spiegazioni:come il fatto che lui, Pannella, per Milano non abbia mai mostrato affetto nè simpatia nè interesse, tutto intento com’era a voltare a suo uso le debolezze della politica romana, a stordirla di chiacchiere, di monologhi interminabili, di ruffianerie, bavagli, piagnistei, digiuni, referendum, a invaderla di anno in anno con le sue battaglie a volte eroiche e a volte improbabili o addirittura incomprensibili. Di quel che accadeva quassù, nelle brume operaie della Gallia cisalpina, a Pannella non è mai importato granchè. Il Palazzo era giù, in riva al Tevere, ed era il Palazzo che lui voleva conquistare.
Eppure c’è un pezzo di Milano che da lui è stata sedotta. Non tanto nelle urne, dove il 13 per cento delle europee del 1999 costituì un exploit irripetuto, ma in quella regione un po’ oscura dove si consolidano e si disfano i luoghi comuni, e dove in pochi si osano avventurare. Oggi la legge sull’aborto è un patrimonio sostanzialmente condiviso da destra e sinistra, ma quando i medici pannelliani finivano in galera erano pochi a difenderli. Oggi la flessibilità del mercato del lavoro è accettata e rivendicata anche dal sindacato, ma nel 1999, quando Pannella andò all’attacco con cinque referendum dello Statuto dei lavoratori, a momenti a sinistra lo linciavano.

Arrivato a ottantun anni, a quella Milano il teramano dall’eterna Galouises non sembra avere più niente da dire. Ma chissà se è lui a non essere più all’altezza dei tempi, o sono i nostri luoghi comuni a non essere più all’altezza di lui.

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