Abu Imad, il predicatore di viale Jenner consacrato imam con un kalashnikov

LA SCELTA Due fazioni si contrapponevano. Il suo sponsor era un trafficante. Prevalse grazie a un fucile

«L’imam Abu Imad era appoggiato da una decina di tunisini, mentre molti più egiziani sostenevano Abu Khadija. Allora Hamadi Bouyahia, ex spacciatore di droga, andò nell’ufficio di Abu Imad o nella biblioteca, tornò con un kalashnikov e minacciò gli egiziani con il mitra. In seguito i sostenitori di Abu Khadija non hanno più dato problemi». Così nel 1996 - dichiarò il pentito, Jelassi Riad - Abu Imad divenne il «capo spirituale», l’imam della moschea di viale Jenner, e uno dei più duri predicatori d’odio, oltre che uno dei più efficaci organizzatori del terrorismo islamico. Un «capo» - secondo il procuratore aggiunto Armando Spataro - «promotore della cellula, indottrinatore carismatico e reclutatore di giovani per l’Afghanistan», come scritto nel primo mandato di perquisizione in moschea. Abu Imad era arrivato in Italia nel 1993, ma prima era stato in Croazia e Pakistan. Proprio in Pakistan, a Peshawar, nel 1992 aveva conosciuto il medico egiziano Ayman Al Zawahiri, numero due di Al Qaeda dietro Osama Bin Laden. L’incontro - disse Abu Imad, testimone a favore di tre terroristi tunisini - avvenne in un ospedale per mujaheddin. Di più non spiegò, né gli fu chiesto. A Milano lo aspettava Anwar Shaaban, che ne fece subito il suo «braccio destro». Reduce dalla guerra ai sovietici in Afghanistan, implicato nell’attentato a Sadat (1981), Shaaban, con l’asilo politico, ottenne la moschea di viale Jenner e immediatamente fondò il Centro culturale islamico. Da Milano reclutò, addestrò, spedì uomini e armi su i fronti di guerra. Partì lui stesso per la Bosnia. Fu ucciso il 14 dicembre 1995, nel giorno stesso degli accordi di pace. Per la qualità dell’organizzazione terroristica e la scaltrezza, Abu Imad ha superato il maestro. Ha «ospitato», ufficialmente come bibliotecario, Yassine Chekkouri nel centro culturale. Lo chiamavano il «Monaco» perché non usciva mai dalla sede di viale Jenner). Ha assunto come segretario Hafed Remadna, considerato capo della rete terroristica algerina in Europa. E con la protezione della moschea, con i telefoni dell’istituto, con il computer dell’imam, i due svolgevano il loro regolare lavoro di reclutatori in ben sei Paesi europei di combattenti e kamikaze, che spedivano nei campi di addestramento in Afghanistan. Abu Imad, incriminato solo nel 2005, non ha fatto neppure un giorno di carcere preventivo. È stato condannato (con conferma in Appello) a 3 anni e 8 mesi per «associazione a delinquere aggravata da finalità di terrorismo». E con questo riconoscimento, ogni volta, è tornato tranquillamente nella sua moschea. Dove finalmente lo ha raggiunto la prescrizione. Colpa della «Cirielli» che ne ha accorciato i termini dell’estinzione dei reati. Ma colpa soprattutto del terrore degli interpreti che l’imam, perfetto conoscitore dell’italiano, pretendeva al processo. Dopo il disprezzo regalato in aula alla interprete, colpevole di essere persino una donna, quelli successivamente nominati dal tribunale, si sono regolarmente defilati sino a far saltare i termini. Ma regolati così male i conti con la giustizia, come mai non è stato espulso? Non c’è un solo poliziotto o un solo ministro dell’Interno che abbia mai dubitato sul ruolo di Abu Imad nella mappa del terrorismo islamico in Italia. È arrivato, lui che non tocca vino o prosciutto, persino a giustificare lo spaccio di droga se i proventi vengono utilizzati «per la Jihad contro un Paese occidentale». Come mai non c’è mai stato un decreto per mandarlo via? Si fa peccato a immaginare qualche inconfessabile intesa? Ennio Remondino, pm al processo, dopo aver dipinto a tinte fosche il personaggio, propose 4 anni e 6 mesi di condanna. Ma non passò alla richiesta di espulsione. Con la procura, infatti, e prima ancora con la Digos, Abu Imad ha cercato di riciclarsi. Non si è raccontato come un pentito, certo, ma come un uomo nuovo che ha scoperto il dialogo, un predicatore capace di controllare, di tenere a bada, di raffreddare gli animi dei fedeli più scalmanati. Un evidente doppio gioco che non lo ha screditato presso i suoi e che, dopo la comparsa del primo kamikaze islamico in Italia scredita solo il nostro Paese. La modalità, la preparazione dell’attentato è stata quella di sempre. Che il kamikaze Mohammed Game fino a pochi mesi fa non fosse un credente, dimostra ancora una volta che non si diventa terroristi in questa pretesa «guerra santa», senza la conversione e la benedizione della moschea. Il metodo per arruolare questo 35enne libico, un idraulico da 10 anni in Italia, è stato tante volte collaudato: puntare su un uomo in crisi (economica e psicologica nel nostro caso), affiancargli un «anziano» che lo indottrina e lo accompagna a morire e seminare una strage. Ora Abu Imad, già specialista nel «lavaggio del cervello», può prendere tutte le distanze che vuole, ma con quel passato mai rinnegato non può essere un credibile predicatore di pace. Chi, tra i suoi fedeli soprattutto, può dubitare che stia facendo l’ennesimo doppio gioco? Gli islamici hanno certo diritto ai loro luoghi di culto. Ma un imam compromesso col terrorismo, può continuare e reggere la più grande moschea di questa metropoli? È possibile con certi religiosi trattare per la nuova o le nuove moschee? Il ministro Maroni, saggiamente convertito alla integrazione dei musulmani, vuol fare di Milano un esempio.

E non vede un ostacolo insormontabile nel capo della moschea più inquisita nel mondo? E non allarma che non ci sia tra i musulmani praticanti nessuno che abbia chiesto ad Abu Omar di fare non uno ma due passi indietro? Di lasciare a guida della moschea a un successore che non si accrediti con un kalashnikov.

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