Decenni di carcere agli insospettabili amici delle 'ndrine

Decenni di carcere agli insospettabili amici delle 'ndrine

«Bastardi», «infami», «vergogna». Urla dalle gabbie, urla dal pubblico. Parenti che si sentono male. Insulti agli investigatori che hanno condotto le indagini e testimoniato in aula. La moglie di Ivano Perego, imprenditore lombardo condannato a dodici anni per essersi consegnato mani e piedi ai clan, ha una crisi di nervi e viene allontanata dall'aula. Finisce in un putiferio l'udienza finale del maxiprocesso Infinito, la prima grande inchiesta del nuovo secolo sulla 'ndrangheta al nord. Alla lettura della sentenza che seppellisce con secoli di carcere quarantadue imputati, si scatena una reazione che sarebbe stata impensabile nei vecchi processi al crimine organizzato, dove imputati di lungo corso accettavano impassibili - e a volte col sorriso sulle labbra - pacchi di ergastoli. Ma la mutazione della malavita porta anche a incassare con minor fatalismo le batoste giudiziarie.
Alle 14,30 il giudice Maria Luisa Balzarotti legge la sentenza che accoglie quasi in pieno - con solo due assoluzioni - le richieste della Procura. A dare la stura ala rabbia degli imputati è il capitolo sui risarcimenti agli enti locali che si sono costituiti parte civile e si vedono riconoscere risarcimenti per milioni di euro per i danni arrecati alle comunità lombarde dalla penetrazione mafiosa. Un milione alla Regione, trecentomila ciascuno alla provincia di Monza e ai comuni brianzoli come Desio e Seregno. «Schifosi, i mafiosi siete voi» tuona dalle gabbia incontenibile Cosimo Squillaciotti, condannato a tredici anni. E al coro si uniscono quasi tutti gli ospiti delle gabbie dell'aula bunker di San Vittore. La folla dei parenti prima applaude ironicamente, poi si unisce alla protesta. Angelica Riggio, l'unica donna imputata, si rotola a terra urlando «voglio morire», per i sei anni e mezzo inflitti a lei e per i sedici anni piombati su suo marito; e alla fine devono sedarla con le gocce.
L'inchiesta dei carabinieri del Ros costrinse due anni fa a rivedere vecchie certezze sulla struttura del potere della mafia calabrese in Lombardia: non più magma di realtà autonome, ma un organismo compatto e verticistico. Ieri le condanne fioccano sugli uomini indicati come capi e gregari dei «locali», le filiali territoriali: la più pesante, i vent'anni a Candeloro Pio, capo del locale di Desio. Ma fanno impressione anche i tredici anni inflitti all'uomo che ha incarnato in questa indagine la penetrazione della 'ndrangheta nella pubblica amministrazione: Carlo Chiriaco, capo dell'Azienda sanitaria locale di Pavia, condannato anche lui per associazione mafiosa. Natale Marrone, ex coordinatore del Pdl a Desio, se la cava con tre anni.
Poi c'è il capitolo dei «colletti bianchi», gli imprenditori accusati di avere prestato agli affari dei clan una faccia pulita. Sono Ivano Pe\rego, titolare fino al giorno dell'arresto di una delle aziende di costruzioni stradali più attive in Lombardia, e il suo braccio destro Andrea Pavone. Dodici anni la pena per Perego, quindici per Pavone.

Dietro di loro, dice l'inchiesta, c'era il clan degli Strangio, che si era impadronito dell'azienda e attraverso di essa conquistava affari e appalti. Perego si è sempre considerato una vittima più che un complice, ma la sentenza dice che i giudici non hanno avuti dubbi.

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