Le donne, i cavalier, l'arme, gli amori. Nessuna cortesia. Tanto meno audaci imprese. Fu una storia di femmine. Tale Ippolita «de Corsico», a dividere Alberto Meraviglia e Giovanni Battista Castiglioni. L'uno, scudiero e ambasciatore di re Francesco I di Francia. L'altro, erede di una ricca e potente famiglia cittadina. Quest'ultimo morì, assassinato, in quel di Brera. Vecchi rancori maturati dai tempi giovanili, trascorsi nella stessa compagnia d'armi. Invidie politiche. E, appunto, una dama per due. Troppi.
La geometria dell'amore non contemplava forme triangolari. E il Meraviglia non dimenticò mai. Nemmeno si sporcò le manì. L'agguato lo tesero i suoi servitori. Era il 4 luglio 1533. Guardacaso durante un soggiorno milanese del diplomatico di corte del Valois. Alberto pagò come mandante. Due giorni dopo, finì sulla forca. La testa fu esposta al Broletto e in piazza Mercanti fece lugubre mostra di sé il resto del corpo, poi sepolto in Santa Maria delle Grazie, mentre non si placarono gli attriti politici.
Quella che non fu mai chiarita è la stirpe dell'emissario dei francesi. Forse discendente di quei Meraviglia cui deve il nome la strada che unisce piazza Cordusio a corso Magenta. Gente del popolo. E di modeste origini, ma di buona volontà. Vi abitavano fin dal Medioevo. Al civico quattro. Oggi rimane ancora la torre. Mattoni nudi. Come la casa a fianco, ricoperta da un disgustoso intonaco bianco che, di tanto in tanto, lascia intuire identica pietra. Contorno di finestre a ogiva, violentate da vetrate sigillate, orfane di persiana. Stile terzo millennio contro linee dell'anno mille. Temuto capolinea storico della fine di tutte le fini.
I Meraviglia vivevano lì. Umilmente. Ma arrivò un tempo in cui divennero nobili. Lo volle il vescovo. Ottone Visconti li ricompensò per l'aiuto ricevuto a conquistare il potere dopo la battaglia di Desio. Era il 1277. Tradirono i Torriani per difendere i Visconti. Così fu elevata di rango una schiatta di cui Milano si vergognò. Le dedicò una via, ma ne nascose spiegazioni. «Antico casato cittadino». Sulla lapide stradale, nessuna dicitura.
I Meraviglia che divennero feudatari dei poderi di Ghiemme, nel Novarese, furono consegnati a un «meraviglioso» oblio.
Destino di una via che non sarebbe mai appartenuta a nessuno. A dispetto delle ricchezze che vi sono sempre circolate. Transiti. Uomini e denaro. In una strada nel cuore di Milano ma non nel cuore dei milanesi. Veniva da Pola, Mario Kukas. Esule di un'Istria svenduta. E vi trovò moglie, Maria Carmela Battimelli. Salernitana di Ravello. Non sapeva che avrebbe sfornato dolcetti per mezzo secolo, quando arrivò. Iniziò con le caramelle. Poi qualcuno chiese la liquirizia e lui storse la bocca. Perché non l'aveva. La mattina dopo rotellina e bastoncini erano lì. In vetrina. Un giorno riuscì a illanguidire gli occhi del «Vecchio». Lo chiamavano così, «Cil-Indro» Montanelli, al secondo piano del Giornale . Dove stava l'amministrazione. E lui, che - per anni - quasi di soppiatto vi soddisfaceva le sue dolci debolezze, non ne osservò il tramonto. Ma dopo 54 anni di golose carezze del palato, il caramellaio che vide morire il Vecchio se n'è andato anche lui. A Ravello, però.
In via Meravigli il deserto iniziava a mordere lingue d'acciottolato. Non vi cresceva il cotone, ma Francesco Turati che lo commerciava stabilì qui la sua dimora. Era già conte fra il 1876 e il 1878 quando l'architetto Enrico Combi gli consegnò le chiavi del palazzo al 7. Lo era diventato nel dicembre del '62 per benemerenze filantropiche. Ne beneficiarono le corporazioni morali cittadine. Ma il titolo associò altri meriti. Innovatore di manifatture. E gran mecenate. Dai gusti raffinati e tasche, nemmeno a dirlo, ben gonfie.
Nella magione del conte, dalle fogge neorinascimentali che richiamavano il Palazzo dei Diamanti ferrarese, entrarono i maestri del pennello. Non senza stranezze. Mosé Bianchi, reduce della guerra di indipendenza, vi mise piede con la sua tavolozza e una quarantina e rotti anni sul groppone. E fa a tempo a strabuzzare gli occhi. Stessi arnesi del mestiere in mano, si ritrova di fronte la barba biforcuta di Giuseppe Bertini. Da collega. Eppure era stato direttore di Brera quando il Bianchi studiava. Ne aveva un bel sessanta, ormai. Ma la mano non gli tremava affatto. Il «bocia» era il Pogliaghi che non arrivava ai trenta. A Lodovico piaceva star comodo e, insegnando all'Accademia, prese casa in via Pontaccio. Tutto andò bene finché gli toccò scolpire il portone centrale del Duomo, poi fioccarono le trasferte. Genova. Chiavari. Varese. Dove morì all'alba dei 93 suonati.
In casa Turati il terzetto si dà un gran daffare. I due allievi decorano il salottino azzurro, l'ex rettore fa il verso al Tiepolo, affrescando il salone da ballo. È un gioiello per chi ha la fortuna di viverci. Come la Famiglia meneghina. In quegli appartamenti ebbe la sede per settant'anni. Nel '94 la Società del Giardino se la porta in via San Paolo. O come i figli del conte. Ercole ed Ernesto. Vi coltivarono le loro passioni. Il primo collezionando uccelli. Il secondo, farfalle.
Da via Meravigli volarono via anche loro. Gli uni e le altre. Oggi sono al museo della Scienza e della Tecnica. Secondo ornitologi ed entomologi raccolgono specie rarissime. Un anno prima di morire, Ercole fece il progetto del palazzo di fianco. Sullo stile della Cancelleria di Roma. Ma se ne andò prima. Dal '54 ci abita la Camera di commercio. In via Meravigli rappresenta fantasmi perché di negozi ce ne sono sempre meno.
Gli ultimi a fare i bagagli sono stati la Rosa e il Paolo. Milanese lei, genovese lui. Dal '74 hanno gestito la libreria all'incrocio. Specializzati in testi dialettali e sulla storia della città. Hanno mollato la presa. Anche loro. Come le compagnie assicurative. Come la profumeria, ora rimpiazzata da Taschen. Come il Paradiso della carta. Dove non era proibito sognare origami all'occidentale. E inchiostri profumati.
In compenso sono arrivati gli autonomi. Anche qui. Hanno sfondato un portone e per un giorno hanno fatto bagordi. Tra salamelle e muri disegnati a tinte forti. «Take the city». Una bolgia. E forse aveva ragione l'Enzo. Jannacci, s'intende. Che il suo locale, fatto di whisky e jazz, all'incrocio con Santa Maria Segreta, l'aveva chiamato proprio così. Il bolgia umana. Ma dopo due anni se n'era andato.
C'è una Milano scomparsa in via Meravigli. Al 12 stava la chiesa di San Vincenzino con il suo cimitero. Fu abbattuta dopo i bombardamenti del '43, ma ossa dei corpi che riposarono nel camposanto emersero nel '52, quando furono scoperte tracce di una dimora romana.
Travolte dalle ruspe anche le chiese di San Pietro e Lino, di cui esiste tuttora la piazza e San Nazaro in Pietrasanta che usò la torre dei Meraviglia come campanile. E oggi unica superstite. «Storie di Milano» prosegue il suo viaggio. Chi vuol contribuire con foto d'epoca può inviarle via mail a storiedimilano@ilgiornale.it. Le pubblicheremo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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