Cronaca locale

«Ecco il mio Pirandello è meglio di Masterchef»

L'attore sul palco dello Strehler con «Il giuoco delle parti»: «Con un uovo alla coque, l'ironia della sfida tra vita e morte»

«Ecco il mio Pirandello è meglio di Masterchef»

Il finale del «Giuoco delle parti» di Pirandello è affidato a un uovo alla coque. Leone, protagonista del testo che Umberto Orsini allestirà sul palco dello Strehler da martedì a domenica, lo prepara per sé ogni mattina. Persino la mattina dopo aver «mandato al macello» Guido, l'amante di sua moglie.

Chi è questo Leone? Come si combinano il suo gusto per la filosofia e per la buona cucina, che prepara mentre discute di Bergson con il suo cameriere, e il suo cinismo?

«Leone è anzitutto un uomo che, in nome appunto del gioco delle parti, tollera che la moglie abbia un amante. Quando Silia gli tende una trappola coinvolgendolo in un duello, lui riesce a smarcarsi e a lasciare che muoia al suo posto Guido. Il mistero della sua identità, nell'allestimento che ho ideato con il regista Roberto Valerio, è affidato a un lungo flashback attraverso cui Leone, rinchiuso in una sorta di clinica, va alla ricerca dei fili del passato».

Nel suo spettacolo è comunque rimasta la scena dell'uovo alla coque?

«Si, ma in modo che per il pubblico rappresenti una grande sorpresa, che non svelerò del tutto. Quando l'uovo si rompe, ciò che fuoriesce non richiama simbolicamente la vita, ma la morte, che è poi il tema di fondo dello spettacolo».

Il testo di Pirandello ha quindi subito una sorta di reinvenzione?

«Non una reinvenzione, solo un approfondimento di alcuni aspetti. Anche il momento in cui Leone riceve la sfida è inquadrato in una luce più complessa. Talvolta però mi chiedo che sensazioni susciti nel pubblico una tenzone dal sapore cavalleresco. Oggi, quando la gente sente la parola sfida, c'è il rischio che pensi tutt'al più a Masterchef!».

A proposito di trasmissioni televisive sulla cucina, il primato italiano non spetta forse a lei?

«Quella che ideai e condussi nel '71 per la Rai, insieme con Luigi Veronelli, si chiamava “Colazione allo studio sette”. Andava in onda prima del tg pomeridiano ed era strutturata come un match gastronomico tra regioni. Gli chef dei ristoranti più rinomati delle città capoluogo gareggiavano preparando un piatto. La valutazione era affidata ai protagonisti della cultura italiana».

Una sorta di “Prova del cuoco” con 30 anni di anticipo?

«C'era una sola, ma notevole differenza: i giudici che interpellavamo Veronelli e io si chiamavano Federico Fellini, Gianni Brera, Luchino Visconti … Ho un ricordo molto divertente di Visconti, che la dice lunga sui suoi scrupoli filologici. Quando gli sottoposero un risotto alla milanese, disse sdegnato: «manca la michetta!». Allora a Roma erano in pochi a sapere cosa fosse una michetta, toccò a me modellarla con la mollica di una ciriola».

E di Luca Ronconi, qual è il suo ricordo più vivido?

«Per una strana coincidenza, ha proprio a che fare con un risotto. Avrebbe dovuto cucinarlo per pranzo la volta in cui andai a trovarlo a casa sua, in Umbria. Non appena lo mise sul fuoco, la sua cagna cominciò a dare alla luce un cucciolo dopo l'altro. Ronconi era più interessato a un libro sulla gravidanza canina, una sorta di manuale d'istruzioni sul parto, che alla cucina. Il risotto divenne immangiabile, lo trasformai in un riso al salto per cena.

Ma in quell'episodio ritrovo due tratti salienti di Ronconi: la passione analitica per il testo, addirittura per quasi ogni testo; l'importanza accordata alla nuda vita, che per lui si manifestava nella vitalità primaria degli animali».

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