Durante il processo un giudice l'accusò di cercare a ogni costo un capro espiatorio. «Io voglio solo giustizia - gli risposi -. Per me è importante che vengano riconosciute delle responsabilità. E che questa vicenda non sia dimenticata fino a quando non ne accade un'altra simile, altrettanto tragica».
Daniela Zaniboni compirà 51 anni il 6 novembre prossimo. Apprezzata logopedista (una delle poche a utilizzare il linguaggio dei segni, ndr) non deve però la sua notorietà alle proprie capacità professionali, ma per essere rimasta vittima di un folle dieci anni fa, il 5 maggio 2003. Andrea Calderini, 31 anni, quel pomeriggio, prima di togliersi la vita, fece una strage. In un raptus di rabbia, dopo aver ucciso a colpi di pistola la giovane moglie nel loro appartamento di via Carcano, in zona Fiera, l'uomo era sceso al piano di sotto e, dopo aver suonato il campanello della vicina di casa, senza fiatare, quando lei era andata ad aprire le aveva scaricato contro un intero caricatore.
Quindi era risalito nella sua abitazione e si era messo a sparare dalla finestra di casa per una mezz'ora come se si allenasse al tiro al piccione. Fu allora che, prima di togliersi la vita con una pallottola in testa, Calderini centrò tre passanti.
Nessuno morì, ma Daniela, che passava di lì per caso ed era stata costretta a fermarsi quando uno dei feriti era caduto a terra davanti al suo scooter, venne colpita alla schiena, a un braccio e a una caviglia. Erano le 15.28. Da allora è paralizzata dallo stomaco in giù.
«Non ho mai perso conoscenza se non quando, in ambulanza, sono stata sedata per il dolore fortissimo che sentivo alla schiena e a un polmone - ci racconta -. Al mio risveglio, nel letto d'ospedale, non sentivo le gambe e ho capito subito che non avrei più camminato. Allora ho aperto le braccia misurando lo spazio attorno al mio letto, il mio nuovo mondo ristrettosi per sempre in una frazione di secondo. In quel momento ho pensato che se Calderini mi avesse ammazzata, mi avrebbe fatto un favore». La rabbia di Daniela, però, non si misura dalla sua persona. Dai modi equilibrati e dolci, dalla voce pacata. E nemmeno dai locali luminosi della sua abitazione accogliente che rivela un animo senza angoli bui se si eccettua un nero mare in tempesta da cui emerge un faro solitario e che lei stessa ha voluto farsi dipingere su una porta scorrevole per ricordare tutta la sua collera. Il vero spirito di questa donna che a 40 anni si è trovata ad affrontare una vita costellata di limiti, emerge dai suoi rapporti sociali. Quelli che l'hanno aiutata e continuano ad aiutarla ad andare avanti.
«Qualche mese dopo essere rimasta paralizzata, mia madre morì per un ictus. Fu un periodaccio. Tuttavia questa brutta storia mi ha fatto scoprire di essere molto amata, di avere intorno tante persone che mi vogliono bene e sulle quali posso contare sempre - sorride -. In sei mesi d'ospedale non ho mai mangiato una sola volta in solitudine. E non c'è giorno in cui qualcuno non mi venga a trovare. Sa, io ho bisogno di essere accompagnata al lavoro, di qualcuno che mi fa la spesa, che mi mette a letto. È vero che ho un buon carattere, che ho sempre riso di tutto, ma credo di non dover spiegare che quel che mi è successo è una faccenda completamente diversa, ti stravolge qualsiasi tipo di prospettiva».
Ma allora perché questa donna, granitica e volitiva, trasmette tanta speranza? Come fa? «Al processo ho capito che il caso di Calderini - che soffriva da anni di un disturbo ossessivo compulsivo ben conosciuto da tutta la famiglia e che era già stato denunciato per la sua aggressività e le sue intemperanze - era stato trattato da tutti con superficialità. Lo psichiatra che gli aveva falsificato i certificati per farlo apparire normale (e che, per tutto il processo, evitò sistematicamente il mio sguardo!), il medico militare, il funzionario di polizia del commissariato: tutti gli avevano permesso, seppur con differenti gradi di consapevolezza, di ottenere quel porto d'armi per uso sportivo per gestire un arsenale che un tipo del genere non avrebbe mai dovuto avere! Solo il medico di base, che si rifiutò di fargli un certificato di sana e robusta costituzione perché non lo aveva mai incontrato prima, si comportò scrupolosamente.
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