«L'infinito tra le note», edito Solferino, è l'ultimo libro del direttore d'orchestra Riccardo Muti: 78 anni (a luglio), di cui 19 spesi alla Scala, 34 in America fra Chicago e Philadelphia, ospite fisso dei maggiori complessi d'Europa, dai Berliner ai Wiener Philharmoniker. Che sono in cima al suo portfolio da mezzo secolo: anche se in cima ai pensieri - confessa - ci sono l'Orchestra giovanile Cherubini e l'Opera Academy. Domenica, presentando il libro a Milano, Muti è tornato su battaglie e i temi più cari. «I direttori non hanno più l'autorevolezza di imporsi sui registi. Quando ero alla Scala, facevo un mese di prove. Nonostante avesse fatto almeno 300 Otello, Placido Domingo rimase a Milano 25 giorni per la nostra produzione. Voleva studiare con me un'interpretazione diversa. Ora, invece, tutto è appannaggio dei registi».
Negli anni 70, dissero: Muti è di destra. «In quell'epoca era proibito dire la parola patria, io invece credevo molto nella parola patria, nella bandiera. Mi arrabbiavo, quando andando a Salisburgo, vedevo la bandiera italiana ridotta a uno straccetto coi buchi mentre quelle tedesca e austriaca erano alte 6 metri. Così conclusero: Muti è di destra. Del resto, durante gli anni alla Scala dissero di tutto: che aveva la parrucca, che mi tingevo i capelli, che ero di destra e poi di sinistra»
E poi la musica contemporanea. «Oggi non riusciamo a trovare un compositore che scriva musica che diventi parte di noi. Forse perché si è perso il senso della melodia. Io sono convinto che siamo esseri umani biologicamente accordati al senso della melodia. Penso che arriverà un momento in cui si formerà un nuovo linguaggio musicale capace di creare un nuovo rapporto fra pubblico e compositore: avverrà grazie al confluire delle varie civiltà e culture, l'una nell'altra». E il patrimonio intellettuale italiano? «Non posso più sopportare che si ascoltino le opere di Wagner o Weber con ossequio, in ginocchio, mentre l'opera italiana venga spesso intesa come intrattenimento. Le orchestra tedesche e austriache quando suonano Wagner hanno un comportamento diverso rispetto a quando fanno Rossini o Bellini. Io ora non lo sopporto più». L'infinito. «Quando studiamo una partitura ne studiamo la struttura, l'architettura, la forma, i timbri, le dinamiche, i tempi, l'andamento. Tutte cose oggettive attraverso le quali vogliamo raggiungere la comprensione del testo. Ma ciò che è dietro le note non possiamo afferrarlo. Ci sono persone che pensano di individuare ciò che è vero. Ma la verità non la possiede nessuno».
La direzione d'orchestra è un'arte molto misteriosa? «Dirigere significa indirizzare. L'orchestra aspetta dal direttore un'idea interpretativa. Le braccia sono un mezzo non un fine. Karajan aveva un gesto molto elegante e limitato, Fritz Reiner quasi non muoveva la mano, Strauss ancora meno. Dicono: Bernstein però era molto estroverso. Ma perché era lui così. Camminava così, si muoveva così». Nel tempo la società è diventata più visiva che auditiva. «Non vogliamo sentire, vogliamo vedere. E così, piace chi agita le braccia e fa il pagliaccio sul podio. Guarda che temperamento, dicono. E se il direttore sta controllando l'orchestra con un potere interno, senza muoversi, allora il critico dice non era in sintonia. Ma sappiamo come sono i critici, almeno la maggior parte».
E le qualità del direttore? «Deve saper suonare il pianoforte: per leggere una partitura e poterla trasmettere nel proprio corpo, anche fisicamente. E' poi essenziale conoscere bene uno strumento ad arco. Quindi bisogna studiare composizione: ti consente di guardare la partitura anche dalla parte del compositore». PAF- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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