Da una parte lui. Che sostiene di non averne potuto fare a meno, di essere stato «costretto a difendersi», che non c'era altra via di scampo. Tanto per intenderci una situazione del tipo «o io o loro». Dall'altra i carabinieri del Nucleo radiomobile della compagnia di Sesto San Giovanni. Che non gli credono o comunque, com'è ovvio che sia, non gli credono completamente. Sono stati loro, i militari dell'Arma, con un'operazione congiunta con il commissariato locale di polizia, ad aver fermato nella notte tra giovedì e venerdì Calogero Diana, un pregiudicato di 58 anni con numerosi precedenti alle spalle. Qualche ora prima, intorno alle 19, Diana aveva accoltellato mortalmente un altro pregiudicato ma di dieci anni più giovane di lui, Federico Megna. L'uomo, gravemente ferito e con le mani strette sull'addome a tamponare il sangue, si è trascinato fino in via Marx, in una corte dove abita la madre e lì è stramazzato a terra. Per lui però non c'è stato nulla da fare, le sue condizioni erano già molto gravi: trasportato al San Raffaele Megna è morto poco dopo le 22.
Le ambulanze del pronto intervento l'altra notte a Sesto San Giovanni sono state più di una. Quando gli investigatori hanno cominciato a interrogare i residenti cercando possibili testimoni e telecamere nella zona periferica dov'era avvenuto l'omicidio, e mentre i loro colleghi e i poliziotti erano a caccia dell'omicida, si è scoperto che altri due uomini, anch'essi italiani e pregiudicati, erano stati feriti con delle coltellate e portati d'urgenza all'ospedale di Sesto San Giovanni: uno dei due era in gravi condizioni e resta tuttora ricoverato in prognosi riservata. Così è venuto fuori che il fuggiasco aveva ferito anche loro, accoltellandoli, durante l'aggressione a Megna.
Davanti al pm che lo interrogava, in Procura a Monza, Diana ha ammesso che sì, era vero, qualche ora prima si trovava in un bar di Sesto San Giovanni e lì avrebbe iniziato a litigare con altri frequentatori del locale per ragioni che non ha voluto spiegare ma che ha definito di scarso rilievo. A quel punto, sempre secondo la sua versione dei fatti, gli animi si sarebbero surriscaldati e lui, il 58enne, sarebbe stato il primo a venire aggredito da uno dei tre uomini, la vittima appunto.
«Per difendermi sono stato costretto a prendere il coltello dell'uomo che mi puntava contro la lama per colpirmi e quando l'ho avuta per le mani l'ho adoperata per proteggermi, colpendo a mia volta» ha concluso Diana.
Perché allora i carabinieri non credono alla sua versione dei fatti? Semplice: visti i soggetti implicati in questo fattaccio - tutti pregiudicati, gente che la sa lunga quando si tratta di dare una versione «raffazzonata» della verità - è doveroso andarci cauti e
controllare ogni minimo dettaglio, qualsiasi particolare.Poi c'è la ciliegina sulla torta, se così si può dire: i racconti dei due sopravvissuti in molti punti sono divergenti non solo da quello dell'omicida, ma anche tra loro.
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