La crisi di nervi, politicamente parlando, è già conclamata. Ma il centrosinistra milanese, a 8 mesi dalle elezioni comunali, oggi è letteralmente sul punto di andare in pezzi. La diagnosi non è esagerata: gli stessi esponenti del Pd certificano il caos collettivo quando propongono silenzi stampa, ritiri o magari conclavi. Si moltiplicano scenari, ricostruzioni, manovre. E questo venerdì di novembre, però, può essere davvero il giorno della verità, l'inizio della fine.
La «bomba» innescata sotto la coalizione che governa Milano sono le primarie. E - ufficialmente - il pretesto è la data delle primarie. La segreteria del Pd, mercoledì sera, ha dato mandato al segretario Pietro Bussolati di proporre agli alleati il rinvio delle primarie, già fissate al 7 febbraio. Un rinvio di soli 20 giorni. La mossa viene giustificata con esigenze tecnico-organizzative. E quindi minimizzata. Per qualcuno, ovviamente a sinistra, sarebbe stata al contrario concepita per forzare, fino al punto di far saltare l'alleanza. Ufficialmente, i destinatari della proposta, vale a dire gli alleati principali, gli esponenti di Sel, hanno già detto no. La coordinatrice Anita Pirovano, ieri ha parlato del «tradimento di un impegno assunto sia dalla coalizione che dal sindaco Pisapia». Dunque la proposta oggi sarà rigettata al tavolo della coalizione. E il Pd che farà? La ritirerà incassando una brutta figuraccia o terrà duro fino al braccio di ferro? Uno dei candidati, Roberto Caputo, avverte che «il rischio di impaludarsi, come quello di un corto circuito, non va sottovalutato».
Nella sinistra del partito, la proposta del rinvio è vista come l'ennesima conferma del fatto che il leader del Pd, Matteo Renzi, le primarie non le vuole affatto. Questo suo no, secondo questa lettura, coinciderebbe con le esigenze del suo candidato sindaco in pectore, il commissario Expo Giuseppe Sala. La faccenda, però, qui si complica ulteriormente. La posizione del manager, infatti, è tutta da decifrare. Questo si è chiarito molto bene negli ultimi due-tre giorni. Sala non è disinteressato a Palazzo Marino, anzi vedrebbe la fascia tricolore come una prospettiva interessante anche umanamente. Ma a certe «precise condizioni». Certo, ha anche dichiarato la sua simpatia per il Pd. Ed è disposto a darsi un profilo da manager progressista. Ma, questo è chiaro, non ha alcuna intenzione di calarsi nei panni dell'aspirante politico di sinistra, e non è disposto a farsi fare gli «esami del sangue» dagli ex comunisti. Sala non è e non vuol essere il nuovo Pisapia. La questione non è solo di immagine. È di pura sostanza: il manager, per esempio, potrebbe essere favorevole alle privatizzazioni. E l'elettorato arancione probabilmente non approverebbe le sue ricette. Sulle emergenze della città, poi, sarebbe compatibile con il «popolo del 2011?»? Sono tutti nodi irrisolti. Nodi che si riflettono sulle primarie. La carta dei valori, per esempio, sembra una professione di fede arancione. E difficilmente la può firmare. È un bocconiano che ha fatto Expo, non un federatore. Non un nuovo Romano Prodi. Sel, per esempio, ha comprensibilmente preso malissimo la sua indifferenza all'alternativa destra-sinistra. Questa incompatibilità avrebbe potuto risolverla Giuliano Pisapia. Ma, pur stimando Sala, non l'ha fatto e non lo vuol fare. Pisapia vuole primarie vere.
E sostenere chi le vince. A questo punto l'unico che può convincere Sala a scongelare la sua candidatura è Renzi. Chiedendogli di mettersi al servizio di Milano e del Pd. E addio centrosinistra. Si vedrà martedì. Si capirà forse oggi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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