Simone Finotti
Un artista che divide. Consapevole e anche un po' compiaciuto di farlo. Duro e puro, come sempre. Questo è il Santiago Sierra che, alla sua prima antologica italiana, apre le danze dell'Artweek milanese con la mostra Mea Culpa, a cura di Diego Sileo e Lutz Henke, promossa dal Comune di Milano-Cultura e ospitata al Pac - Padiglione di Arte Contemporanea fino al 4 giugno (catalogo Silvana Editoriale). A pochi mesi dalla chiusura, alla Prometeogallery, della provocatoria «L'abbeveratoio», con topi, svastiche e piatti a base di roditori arrosto, vengono ora raccolte le realizzazioni più note dell'artista concettuale e politico nato a Madrid nel 1966: 50 opere realizzate in 20 anni, dal 1997 ad oggi, a coprire un terzo della sua stagione creativa.
Installazioni e performance svolte in ogni angolo del pianeta, documentate con fotografie e video e fatte rivivere per l'occasione: dagli spari di Città del Messico a Capodanno alle sepolture di operai, dall'acqua del Mar Morto alle pietre di Gerusalemme, dal Sahara algerino de «El grafiti mas grande del mundo» (2012) al Polo Nord e Sud di «Bandera Negra» (2015), dalla Ciudad Juárez di «Sumisión» (2007) alla Napoli degli «Ultimos gitanos de Ponticelli» (2009), di cui vengono immortalati i denti; tutti lavori in cui si fondono diverse tecniche e un'ampia varietà di supporti mediatici, ruvide istantanee di una civiltà che rifiuta di «prendersi la colpa».
Ma colpa di che cosa? Ad esempio dell'iniqua distribuzione delle ricchezze o di condizioni di lavoro disumane: una violenza strutturale che siamo tentati di ignorare e che Sierra ci sbatte in faccia perché «l'arte non conosce assoluzione». Ma c'è qualcosa di più profondo: nell'epoca del post-mercato ha ancora senso diffondere un'immagine positiva e salvifica del lavoro? La risposta è forse racchiusa in quel «NO» a caratteri cubitali, portato in giro in tutto il mondo e avventurosamente proiettato, con una speciale macchina, anche durante una messa di Ratzinger nel 2011. Due semplici lettere in cui Sierra si misura con l'eredità minimalista, presente anche in «Forms», enormi parallelepipedi che sporgono dalla parete, in «Parola distrutta», che occupa tutto il parterre e in «Diamond traffic kills», un gioiello decorato con un lettering diretto ed essenziale.
Torna spesso l'ossessione del corpo, della fisicità (spiazzanti i 21 moduli antropometrici di feci umane che occupano una sala al piano rialzato), e del «salario», simbolo e prodotto del lavoro che diventa «soldo». Tutto ha un prezzo, e così accade che otto militanti anarchici ricevano 100 dollari per ascoltare il Papa in capirote nero, che veterani di guerra siano posizionati di spalle, immobili, negli angoli delle stanze, che persone provenienti da contesti marginali siano pagate per bloccare il traffico o nascondersi per ore in scatole di cartone. «Se credono orribile sedersi 4 ore nel cartone non sanno cosa sia il lavoro», fu la risposta a chi polemizzava. Era il 1999 e l'anno dopo toccò a 4 prostitute, pagate con salario minimo per farsi tatuare una linea sulla schiena, e a due eroinomani che per una dose si fecero rasare 10 pollici di capelli. A proposito, qualcuno ricorderà il biondo platino dei 133 ambulanti abusivi alla 49esima Biennale di Venezia: 120mila lire a testa (era il 2001). Ci fu un seguito: l'artista rappresentò la Spagna nell'edizione successiva, quando ricoprì il nome del paese con un sacco dell'immondizia murando l'ingresso del padiglione.
Del resto non è nuovo a «prendersela» coi Paesi mediterranei in perenne crisi: fu sempre lui, qualche anno fa, a trasformare Italia e Grecia in «mangiatoie» per maiali, giocando amaramente sull'acronimo Pigs e sulla corruzione dilagante.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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