La missione di don Liu a «caccia» di anime nel cuore di Chinatown

Oggi si chiama Domenico, l’altro nome - quello cinese - non lo vuole usare più. Ha una missione (quasi) impossibile: evangelizzare via Sarpi, portare il Vangelo in quel quadrilatero «conquistato» negli ultimi novant’anni dalle botteghe dei commercianti cinesi, animati da una sola fede: quella nel lavoro, oscuro e incessante.
Non è facile, la sua opera nella chiesa della Santissima Trinità, ma don Liu lo sa: «Tanto più la Chiesa è in difficoltà, tanto maggiore è la grazia». Domenico ha 32 anni, vive in Italia da 6 anni, ma si è convertito da 14. È cresciuto con un lavaggio del cervello ateista: «Ci hanno insegnato che le religioni sono tutte superstizioni, e lo dicevo anch’io. Mia madre piangeva per questo. Lei è cristiana. Io ero un ragazzo quando ho scoperto il senso della fede e l’amore di Dio».
Domenico è entrato nella chiesa «del silenzio», quella clandestina: «Ho bussato alle loro porte, ho deciso di diventare sacerdote. Mi hanno risposto che non ero neanche battezzato. Il nostro seminario era una stanza, o una casa, o una palazzina di tre piani offerta da una famiglia cattolica. Tutti insieme, sette o otto in uno stanzone».
Preghiere a luce spenta, canti sottovoce, così Domenico ha studiato e costruito la sua vocazione: «Ora posso dire che è stato più bello, proprio perché più difficile. Mia madre pianse di nuovo, ma stavolta di gioia». La Chiesa non ha molti sacerdoti lì. E le campagne sono sterminate: decine di funzioni al giorno per accontentare tutti: «C’è meno tempo per i nostri fedeli, e loro sono esigenti, forse anche più ingenui dei cattolici occidentali, sono come i cristiani delle origini». Alcuni sono finiti in prigione, alcuni cercano asilo politico in altri Paesi. E poi le messe all’alba, «convocate» con il passaparola per non farsi scoprire.
Figurarsi se ora lo spaventa qualche offesa razzista, qualche pregiudizio: «Gli italiani sono di tutti i colori. Quelli che rimproverano la suora che ci dà una mano e quelli che ci aiutano». Anche i cinesi sono «di tutti i colori». «Alcuni non vogliono integrarsi, altri sono aperti e amano l’Italia». Domenico pensa a tutti, e tutti avvicina. Cura un giornalino mensile, La strada. Affida le copie a qualche ragazzino di via Giusti, o di via Bramante: lo distribuiscono casa per casa, e quando tornano li interroga: «Qualcuno vi ha respinto?», «no, sono tutti cattolici» rispondono entusiasti i suoi piccoli «chierichetti». Non è vero, ovviamente, ma Domenico è qui solo da due mesi, e ha già fatto tanto: sono 80 gli «iscritti» alla sua «anagrafe». «Ma non è abbastanza» ripete.
Prima che arrivasse lui erano al massimo una decina. Padre Giuseppe era ormai anziano, e non celebrava che una o due messe l’anno in cinese. Domenico invece tutti i giorni: ha una piccola cappella, accanto alla grande chiesa parrocchiale, e due sale. Organizza corsi di italiano per gli immigrati: il segreto è che sono gratis. È così che riesce ad avvicinare ogni giorno qualcuno. Da una lezione a settimana è passato a tre, e ora dovrà aggiungere un quarto corso. Ma ci sono anche lezioni di cinese per gli italiani. Poi la biblioteca e il catechismo la mattina. La domenica i canti liturgici e il rosario. Alle 16 la funzione in cinese e poi «un momento di fraternità». Il sabato il corso di pittura per i ragazzi e subito dopo il catechismo: «Se facessi il contrario non verrebbero». Domenico per ora è solo un diacono. Ha studiato all’Università Urbaniana di Roma. È lì che lo ha «pescato» la Curia di Milano, per affidargli la cappellania di Chinatown. L’11 ottobre sarà ordinato sacerdote. Il parroco, don Franco, ha già organizzato un pullman per Roma per partecipare alla cerimonia.

Don Liu manca dalla Cina da 13 anni, ma nell’ultimo mese ne ha vista molta in tv: «Mi ha fatto molto piacere, spero che le cose possano migliorare nel mio Paese, ma la mia casa adesso è qui. Tutto il mondo è la mia casa».

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