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Il mondo della "cultura" fa piangere dal ridere. Firmato: Alberto lo snob

Torna la prima edizione del torrenziale volume che smontò tutti i cliché degli intellettuali

Il mondo della "cultura" fa piangere dal ridere. Firmato: Alberto lo snob

"Quest'anno però senza fare storie, anche se la laurea la rimando ancora di una sessione (ma praticamente gli esami li ho finiti), la MG nuova me l'hanno pigliata lo stesso, bianca latte, deliziosissima. Come del resto è anche giusto: mio papà ha più di un miliardo e in casa siamo pochissimi. Un boccone di pane non dovrebbe mancare mai". Immaginate quando, nel 1963, uscì per Feltrinelli (che lo ripubblica adesso), da un giovane autore trentenne, nell'italietta politicamente democristiana e culturalmente comunista, la prima versione di Fratelli d'Italia di Alberto Arbasino, all'epoca giovane trentenne ricco, aristocratico, coltissimo, il più colto di tutto, e snobissimo, il più snob di tutti.

Nel 1963, quando fu anche fondato il Gruppo 63, una grande ammucchiata di avanguardisti con molta voglia di destrutturare il romanzo nel romanzo senza saperne scrivere uno, e ti arriva questo trentenne che scrive quello che definirei il primo e unico romanzo capolavoro realmente postmoderno, un romanzo sui romanzi, un romanzo sui discorsi culturali, un romanzo elefante affilatissimo e argutissimo e senza peli sulla lingua, lingua da scrittore nipotino di Gadda come pochi ce ne saranno. Elefante, come anche veniva chiamato lo stesso protagonista, che poi è stato l'elefante nella stanza della cultura italiana, l'elefante anche nel circolo degli zombi del Premio Strega (mai vinto uno, se non uno alla carriera, alla fine, per dirla arbasinianamente alla francese grazie al cazzo, signora mia).

Qualcuno dirà: ma cosa faccio, leggo questo di Feltrinelli, il primo, o leggo quello uscito per Einaudi nel 1976, di 659 pagine, o leggo quello ampliato ulteriormente per Adelphi, nel 1993, di 1371 pagine, quale? Se Arbasino fosse vissuto duecento anni, l'opera elefantesca dell'Elefante avrebbe continuato a crescere, perché è un'opera senza fine e un'opera che solo lui poteva permettersi, infilandoci dentro anche intellettuali amici e influenti, smontando i cliché di chiunque, con tanti che si offendevano, a cominciare da Bassani, che lo accusò di mescolanza intollerabile di saggistica e narrativa, e (si legge nei materiali raccolti nella corposo e puntuale saggio finale di Giovanni Agosti, pieno di eventi dell'epoca), l'Elefante rispose: "Ora, io l'ho sempre fatto, e dopo aver letto Proust e Musil ancora di più. Chi c'è oggi che fra Musil e Gide preferisce ancora il récit gidiano tutto pulito e preciso?". Intollerabili anche i momenti tristi che diventano comici e quelli comici che diventano tristi. "Secondo Bassani nel mio libro si muore dal ridere nei momenti drammatici e si sprofonda nel lutto nelle parti comiche. Ma la migliore cultura d'oggi, da Gadda a Brecht, è tutta una mescolanza di grottesco e tragedia".

Arbasino era culturalmente avanti, troppo avanti, sempre stato avanti a tutti, tant'è che è avanti ancora adesso, il récit gidiano credono sia una ricetta francese. Sempre ossequiato il giusto ma guardato anche di traverso da una certa egemonia, come quando l'amico Pasolini gli dette del fascista (guardava con sospetto le manifestazioni degli studenti sessantottini), e dire che nessuno era più liberale di lui, snob e liberale, e ça va sans dire, anticomunista, antifascista, anticonformista in giacca e cravatta. In quel Fratelli d'Italia non aveva nessun problema a descrivere serenamente la sua omosessualità e andare a caccia di aviatori, nessun atteggiamento da San Sebastiano, basti vedere con chi si confrontava, i giganti, e con chi si confrontano tutti oggi, tra di loro, tra cultura di sinistra e cultura di destra. Fratello d'Italia, di un'Italia che lui ha rappresentato in questo capolavoro unico al mondo come provincialissima, ma rispetto a lui l'intero mondo è provinciale.

Ah, infine, già che ci sono, finché ci sono, un piccolo aneddoto personale: dalla fine degli anni Novanta e il decennio seguente, fu tra coloro in cui trovai appoggio come scrittore, e decine sono le sue cartoline in cui mi ringraziava per le recensioni, scrivendomi anche che quel tal finale di quel tal libro in realtà non era suo, era una citazione nascosta, e mentre ti sentivi in colpa per non averla colta, aggiungeva "solo che non mi ricordo più di chi, caro Max". Era gentilezza? Non lo so.

Perché c'è un paradosso: nonostante i rapporti epistolari e telefonici, non l'avevo mai incontrato, ero già misantropo, non mi allontanavo quasi mai da casa, massimo cinquanta metri fino al bar. Se non che un giorno, sarà stata la primavera del 2018, durante un aperitivo a base di rum con Laura Cervellione (oggi giornalista della Rai), lei disse: "Perché non andiamo a trovare Arbasino? Dopo tanti anni è giusto che tu lo veda". "Dici ok" rispose per me l'etanolo. "Ma a mani vuote?". "E con cosa?". Laura adocchiò un negozio di fiori, comprammo un vaso di begonie, e dopo mezz'ora eravamo lì, a casa di Arbasino. Ci aprì il filippino, Alberto arrivò in vestaglia, avanzò lentamente verso di noi, ma il suo sguardo era perso, la sua mente già colpita dalla malattia. Non sapeva più chi fossi, però nella libreria c'erano i miei libri. Ne presi uno: "Sono questo, Alberto, sono Max". L'ultima e unica immagine che ho di lui in persona è vederlo tornarsene nel buio del corridoio, verso la stanza da letto, con in mano il vaso di begonie, continuando a dire "Grazie, grazie, grazie".

Grazie a te, Elefante, e se vedessi oggi quante formiche si agitano nella cultura solo che le formiche non le hai mai considerate, troppo piccole da vedere, e per schiacciarle senza neppure accorgertene, in fondo, è bastato un romanzo immenso.

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