
Il nome è poetico e significa "chiaro di luna". Non quello che Marinetti e i futuristi volevano uccidere, bensì quello sotto il quale i distillatori clandestini producevano l'alcol nottetempo, per sfuggire ai controlli.
Queste sono le profonde radici culturali del moonshine, che di fatto definisce qualsiasi spirito ad alta gradazione distillato in maniera illegale, dall'aguardiente centroamericana al poitin irlandese, dal filu e' ferru sardo al samogon russo, dal bimber polacco a tutti gli spiriti distillati nel terzo mondo. Oggi gli spiriti "illegali" rappresentano ben un terzo del consumo di alcol globale. Storicamente, però, con moonshine si indicava il whiskey di cereali (soprattutto mais e segale) prodotto negli Stati Uniti durante il Proibizionismo.
Per ovviare al divieto di produzione, vendita e consumo di alcolici in vigore dal 1920 al 1933, in parecchi si attrezzarono con alambicchi artigianali di fortuna e si rintanarono nei boschi dagli Appalachi alla Virginia a "cucinare" lontani dagli ispettori, cosa che negli Usa si faceva sin dalla "whiskey tax" del 1791. Ovviamente gli strumenti erano approssimativi, la materia prima discutibile (spesso zucchero semolato) e l'adulterazione costante, sicché il moonshine del proibizionismo, spacciato in damigiane di vetro, era spesso velenoso: metanolo, piombo e metalli pesanti hanno causato cecità e morti.
Recentemente, però, il termine moonshine è stato riesumato dalle distillerie commerciali - ben 45 negli USA - per indicare un distillato quasi sempre di mais (stavolta legale e ovviamente non velenoso!) non invecchiato, realizzato alla maniera dei contrabbandieri.
Quindi con alta gradazione e strumenti meno industriali, e spesso anche con l'aggiunta di aromi. Un prodotto nato come pericoloso, criminale e disgustoso diventa così un prodotto artigianale di nicchia, in cui la cura per la materia prima è totale.