Morto «zio Walter» l’anchorman simbolo d’America

La televisione non gli piaceva più. L’aveva messo nero su bianco una decina d’anni fa, in un’autobiografia che si intitolava semplicemente, A Reporter’s Life, Una vita da cronista. Solo che quel cronista si chiamava Walter Cronkite e la sua vita, nonché la sua faccia, avevano incarnato per un quarto di secolo l’informazione made in Usa. Nel gergo televisivo conkriter era divenuto sinonimo di «conduttore di telegiornale» e l’anchor man qualcosa di più e di diverso da un conduttore e/o un lettore di notizie.
Non era il suo il lamento di un vecchio di ottant’anni, era l’asciutta consapevolezza che sul video il giornalismo aveva ceduto all’intrattenimento, il colore aveva preso il posto dell’approfondimento, la politica era divenuta un teatrino e il cronista che la seguiva una delle tante maschere di una commedia dell’arte. Diceva Cronkite che il giornalismo deve formare e informare, deve guardare al prestigio e non allo share, non deve pensare al telespettatore come a un minus habens potenziale incapace di concentrazione: perché così facendo tale lo riduce, ma tale anche si riduce...
Se n’è andato che aveva superato i novant’anni, lavorato sino agli ottantasette, in pista e in carriera per quasi settanta: il suo primo contratto è del 1936, per un quotidiano di Austin, nel Texas; l’ultimo un articolo cinque anni fa per una catena giornalistica Usa, la King Features Syndacate, che copriva centottanta quotidiani nazionali e un migliaio di testate sparse per il mondo. Gli piaceva andare in barca e giocare a tennis, ha guadagnato bene, ma senza esagerare, guardava con distacco e con un po’ di disprezzo molti dei mezzi busti che erano venuti dopo di lui, più ricchi ma più compromessi: con la politica, con la pubblicità, con il successo.
Da noi il giornalismo «alla Cronkite» è stato più di apparenza che di sostanza. Ci separava, comunque, un oceano, televisivo e non, e si è pensato che bastasse andare in video in maniche di camicia, come faceva lui, per ottenere gli stessi risultati di autorevolezza. Qualcuno poi ci ha aggiunto le bretelle e così si è chiuso il cerchio. Ma Walter Cronkite prima di arrivare al teleschermo era stato reporter di provincia e poi dell’United Press, si era fatto la Seconda guerra mondiale dall’Estremo Oriente allo sbarco in Normandia, al processo di Norimberga, aveva tenuto l’ufficio di corrispondenza dell’Upi da Mosca, al tempo di Stalin... Conosceva il mestiere, sapeva di cosa parlava, aveva visto il mondo. «Sono andato via dagli Stati Uniti che ero un ragazzo, ci sono ritornato che ero un uomo».
Al video si affacciò nel 1950, alla Cbs: avrebbe dovuto seguire la guerra in Corea, lo convinsero e si convinse che poteva essere l’uomo delle news da Washington. Chiese di avere il controllo sulle sue trasmissioni: la scaletta delle notizie, la selezione del materiale, i giornalisti incaricati di scrivere ciò che lui avrebbe letto. Fu così che raccontò quel conflitto, la lotta per i diritti civili, l’assassinio del presidente Kennedy, l’offensiva del Tet in Vietnam, lo sbarco sulla Luna, il Watergate che costò a Nixon la Casa Bianca, la caduta di Saigon, la pace fra Egitto e Israele. Da Truman a Clinton, non ci fu presidente che non abbia intervistato o di cui non abbia scritto o parlato. Di Nixon mise in evidenza il complesso di inferiorità rispetto all’appeal kennedyano, fonte di insicurezza e di tendenza a vedere dovunque un complotto contro di lui, di Carter l’intelligenza e insieme l’incapacità nella scelta degli uomini. Fu, insomma, la voce dell’America, calda ma senza retorica, asciutta ma in grado di commuoversi e di commuovere, «l’uomo più affidabile» secondo i sondaggi, quello di cui Lyndon Johnson dirà: «Perdere il suo appoggio vuol dire perdere l’appoggio del Paese». Il giorno che andò in pensione dalla Cbs e lesse il suo editoriale di commiato, gli altri due network rivali, Abc e Nbc, lo trasmisero in diretta. Non era mai accaduto prima, non è più successo dopo.
La «religione» di Cronkite era la notizia, ovvero il fatto separato dalle opinioni, lo scivoloso terreno dell’obiettività su cui si possono imbastire tavole rotonde che non portano a niente... Del resto, il New Journalism americano fra la fine degli anni Cinquanta e i Sessanta, quello dei Wolfe e dei Talese, dei Capote e dei Thompson, nacque proprio in controtendenza a quella idea asettica, e spesso menzognera, del giornalista super partes... C’era però dietro quella visione un’idea etica del mestiere, una nobiltà del giornalismo in quanto tale, che era la vera chiave di lettura di una professionalità alta e non disponibile al compromesso, il che garantiva comunque la buona fede e dava al mestiere una dignità. Proprio perché si sapeva che Cronkite non era in vendita, nessuno pensava di poterlo comprare. Sono certezze su cui pochi potrebbero oggi scommettere.
Così come non gli era piaciuta la china dell’infotainment televisivo, l’informazione-spettacolo, allo stesso modo Cronkite si dimostrò critico nei confronti di Internet. Non ne amava lo stile violento e volgare con cui nei blog si dice la propria opinione e si insulta quella altrui, ne temeva il combinato disposto di irresponsabilità e di incontrollabilità. Pensava che le notizie andassero verificate, che la scrittura non dovesse essere offensiva, che il rispetto delle opinioni altrui fosse l’elemento di fondo di una corretta informazione.


Se n’è andato senza farsi troppe illusioni sul mestiere, ma senza nemmeno piangersi addosso e piangerne la fine. La carta stampata gli era sembrata in ultimo ancora un’àncora di salvezza. E di questo gli siamo grati.

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