Il "mostruoso" Valéry è un arcangelo sceso sulla Terra a caccia del linguaggio

Negli aforismi va alla ricerca continua del significato nascosto della letteratura. Che quando è "molto bella perde il suo autore" e "lo spoglia di tutto"

Il "mostruoso" Valéry è un arcangelo sceso sulla Terra a caccia del linguaggio

Il 20 luglio del 1945 la Ville Lumière si spense: era morto il suo più luminoso lume. Tacquero le luci, Charles de Gaulle onorava Paul Valéry con i galloni del poeta della patria; la guerra era finita da poco, i funerali di Stato furono il pretesto per le celebrazioni della neonata identità nazionale (qualunque cosa voglia dire). Sotto Vichy, il poeta, con il consueto sussiego, si era smarcato: il suo elogio funebre, all'Académie française, dell'«ebreo Henri Bergson», fu preso per oltraggio.

Da tempo, era il primate della lirica francese: presidente del Pen club dal 1924, immortale di Francia - nel seggio che fu di Anatole France -, nominato 27 volte al Nobel per la letteratura (che mai ottenne). Viveva d'intelletto, dunque al soldo di eteree nobildonne: la più munifica di queste, Martine de Béhague, collezionava opere d'arte; tra tutti, preferiva Degas e Renoir, Watteau e Dürer. Le sue conferenze - pressoché su tutto lo scibile umano - erano impeccabili, granitica la fama: nel 1937 il Collège de France creò per lui una cattedra di «poetica». Inaugurò le lezioni - pubblicate da Gallimard lo scorso anno in due volumi come Cours de poétique - parlando dell'«impotenza della parola», del «linguaggio in difetto», dell'«inesprimibile» e delle «parole soprannaturali». Ai suoi studenti, spiazzati, ricordò che «l'uomo è un'avventura».

Nel 1920 aveva pubblicato il suo capolavoro, Le Cimitière marin, poemetto enigmatico, in sestine, con quell'appello, «Le vent se lève!... Il faut tenter de vivre!», che unisce levità e duello. Eppure, tutto sembra Valéry tranne che il poeta del vento e della vita; poeta di calchi, di maschere e di smalti, lo diremmo; poeta di composta raffinatezza, dall'intelletto tagliagole, micidiale. Della Francia, in effetti, Valéry riassume il gusto per la dizione geometrica, cartesiana, esatta; l'intelligenza sprezzante; una disciplina lacustre, che cela draghi fra artigli d'alga. È stato Franco Rella, pensatore di augustea grazia, in un libro pubblicato l'anno scorso (Paul Valéry. Il poeta maledetto, De Piante; mirabile la traduzione del verso citato sopra: «Si leva il vento!... Avventuriamoci alla vita!»), a mettere in luce gli abissi di Valéry, la sua metamorfica belva, la prossimità con Pascal più che con Montaigne e Cartesio.

Poeta che bordeggia il baratro del silenzio - la leggendaria crisi di Genova, poco più che ventenne, lo porterà al ripudio della letteratura e dei suoi idoli -, che prende dimora nella contraddizione, Valéry è l'artista dell'opera sommersa, esoterica, impubblicabile; il genio degli enciclopedici Quaderni, sorta di sulfurea sintesi del sapere universale (in Italia, Adelphi ne ha pubblicati cinque tomi). È l'uomo dalla poetica implacabile e inappagata, della scrittura come perpetuo martirio affinché la parola si liberi dalla gabbia del senso, divenendo giaguaro, vipera, gheppio. Il più possente tra i pensieri - finora inediti in Italia - raccolti in Ciò che scrivo non è scrivere (a cura di Andrea Franzoni per Argolibri, pagg.196, euro 18) dice, non a caso, dell'animalità della scrittura: «Un'opera non è per me un essere completo e autosufficiente - ma una pelle d'animale, una ragnatela, un guscio o una conchiglia abbandonata, un bozzolo. È la bestia e la fatica della bestia ciò su cui mi interrogo».

Dell'uomo con i baffetti e il papillon, ossessionato dal talento universale di Leonardo da Vinci, che si arrogava il diritto di esprimere sentenze lapidarie su ogni cosa, poco c'importa, ora. Valéry - che ha avuto orde di traduttori-seguaci in Italia: il più talentuoso mi pare Giancarlo Pontiggia, già esegeta di Céline, di Sade e dell'Apocalisse - va visto, oggi, come l'arcangelico cacciatore del linguaggio, il segugio del Verbo preadamitico, il poeta alla grande caccia, con la fiocina e un piumaggio di urla attorno.

Più prosaicamente, Valéry insegna che non esiste poeta senza una poetica, che non si dà scrittore senza ferrea disciplina. La scrittura è tutto («Scrivere - per conoscersi - ecco tutto»), l'opera ha senso finché ha parentela con l'inimmaginabile e si rivolta contro il creatore («L'importanza di un'opera per il suo autore dipende dall'imprevisto che essa gli apporta, da lui a lui, durante la composizione»). Se scrivere è «risolvere una nebulosa interna», la «sterilità» - diremmo: la rinuncia - è uno degli attributi nobili dello scrittore: «si passa i tre quarti del bel lavoro a rifiutare». Altrove, Valéry scrive che «la sterilità è lo stato naturale del poeta... Perché? Se non fosse stato così, non avrebbero alcun valore le sue scoperte».

Potremmo pensare che Paul Valéry prediliga la via ascetica della scrittura. Una fotografia lo blocca, nel settembre del 1926, ad Anthy, insieme a Rainer Maria Rilke. Il poeta-asceta per antonomasia amava Valéry, ne aveva tradotto diverse poesie. L'icona è paradigmatica: Valéry guarda in aria, di fianco al busto che lo ritrae, scolpito da Henri Vallette; Rilke fissa l'obbiettivo - ride. «Si mise a ridere come sapeva soltanto lui, con quella sua particolare sonora risata di fanciullo, indimenticabile per chi l'abbia udita», ricorda Valéry. È difficile, piuttosto, immaginare lo statuario Paul Valéry che ride. Rilke, il poeta recluso nel castello di Muzot, l'autore delle celestiali Elegie duinesi, che ha abbandonato figlia e moglie, può ridere, come fanno i monaci, perché è ormai vuoto di sé, non teme più nulla dal mondo. Valéry, il poeta conferenziere che raccoglieva onorificenze e incarichi come fragole, ha preferito, al contrario di Rilke, i perigli dell'ascesi interiore: aveva troppi labirinti dentro di sé. «Quando un'opera è molto bella perde il suo autore. Non gli appartiene più. Appartiene a tutti. Divora suo padre... lo spoglia di tutto», scrive, in uno dei suoi più feroci aforismi. L'opera, in effetti, ti spoglia di tutto.

Di Valéry, un uomo labirinto, preferiamo il poeta che dentro di sé nascondeva il Minotauro,

Teseo fustigamostri e perfino la cinerea Arianna. Nessuno si avvide della sua mostruosità - tutti restarono catturati dalla gabbia retorica, dalla gorgiera di aggettivi, dal miraggio. Era un uomo che non si faceva amare.

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