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Muammar sale in cattedra: fischi e scontri alla Sapienza

RomaSì, Colonnello, è vero, si stava meglio sotto la tenda, nella quiete di Villa Pamphilij. O anche, imbustato nella divisa nera e costretto dal protocollo, a incrociare le forchette con Giorgio Napolitano. O magari a Villa Madama, a fraternizzare con l’amico Silvio. Certo, tutto è meglio della bolgia che lo aspetta all’università, dove arriva vestito da Bossi, capelli ricci, camicia verde, pochette in tinta, e viene accolto da reazioni contrastanti. Applausi, grida, incitamenti, ma anche spinte, domande scomode, secchiate di vernice rossa ai carabinieri, lanci di uova al corteo di limousine della Jamahiria.
No, non è Umberto Bossi quell’uomo che sale in cattedra alla Sapienza per parlare di fame e immigrazione. È Muammar Gheddafi, invitato speciale del rettore Luigi Frati, simbolicamente «respinto» dagli studenti dell’Onda e protetto da uno schieramento incredibile di forze dell’ordine e di uomini della sicurezza libica, flessuose amazzoni comprese. Il clima è teso fin dalla mattina, cresce con il passare delle ore con l’arrivo dei mezzi Ariete antisommossa, produce scontri e scaramucce varie prima durante e anche dopo il contestato intervento del Colonnello nel primo ateneo italiano. Spintoni, fumogeni, lanci di transenne, lacrimogeni, la polizia che carica, i ragazzi che si proteggono con i canottini da mare gonfiati per simulare i gommoni che partono dalle coste vicino a Tripoli e che lanciano palloncini pieni di vernice rossa, «come il sangue degli immigrati respinti».
Niente feriti, neanche un contuso e nemmeno un arresto, ma molto nervosismo. Qualcuno riesce a fare domande impertinenti: «Quando ci saranno elezioni libere?», senza ottenere risposta. Qualche altro grida: «Le vostre carceri sono piene di dissidenti», e stavolta la Guida risponde: «Stimo moltissimo voi che avete sollevato il problema dei diritti». A Silvana invece il microfono viene spento prima ancora che inizi a parlare. «Peccato - commenta - era tutto preparato. Ma io volevo solo far conoscere pacificamente la posizione dell’Onda».
Troppo tardi, Muammar Gheddafi è già tornato a Villa Pamphilij. Breve tappa rigenerante sotto la tenda beduina top-class, prima dell’appuntamento al Campidoglio. Lì l’accoglienza è decisamente migliore, anche perché c’è chi fa chiaramente il tifo per lui. Sono un centinaio di romanisti, tra cui diversi consiglieri comunali, che sperano che, con il beneplacito di Unicredit, i fondi sovrani di Tripoli investano nella società dei Sensi. «Benvenuto Gheddafi, forza Roma», si legge negli striscioni davanti al Palazzo Senatorio. Che la cosa non sia del tutto impossibile lo si capisce da alcune parole del ministro Claudio Scajola: «Ne abbiamo parlato ieri sera a cena, sono state fatte alcune battute su questo argomento». Altri cartelli, sui diritti umani, vengono rimossi.
Il Colonnello si manifesta avvolto in una Jalabia color tabacco e saluta i fotografi a pugno chiuso prima di prendere sottobraccio Alemanno e salire con lui per la scala di Sisto V. Niente telecamere, l’unica tv autorizzata è quella libica.

Dopo un po’ si affaccia sulla piazza di Michelangelo, incrocia le mani le alza al cielo in segno di vittoria. Il sindaco ne approfitta per prendere ancora le distanze dal Ventennio: «Il colonialismo è stata una pagina negativa della storia».

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