Il calcio non è solo sport in Italia: è rito popolare, educazione sentimentale, linguaggio nazionale. È la mano di un padre sulla spalla di un figlio al primo ingresso in uno stadio, il coro che vibra in gola, l’abbraccio tra sconosciuti al gol decisivo. O dovrebbe esserlo. Perché troppo spesso, da anni, quella stessa passione viene sequestrata da minoranze organizzate che trasformano la festa in guerriglia e il margine della partita in una zona grigia di violenza, affari illeciti e terrore.
La cronaca non parla più di “bischerate da tifosi”. Parla di lame, spranghe, ordigni improvvisati. Parla di corpi a terra. Il nome dell’ispettore Filippo Raciti, morto a Catania nel 2007 in scontri tra ultras, ha bruciato per la prima volta negli occhi del Paese la verità: intorno allo stadio c’è gente pronta a uccidere pur di non rinunciare al proprio dominio. Non un “incidente”, ma la rivelazione di una malattia che cova sotto le gradinate.
E non è stato un episodio isolato: agenti feriti, mezzi delle forze dell’ordine distrutti, e più volte morti e decine di feriti tra polizia, carabinieri e steward. Ogni settimana, ogni turno di campionato o coppa, l’ordine pubblico viene messo alla prova da gruppi che considerano lo stadio territorio da conquistare, non tribuna da vivere.
Eppure ed è il punto che spesso si dimentica quasi sempre l’ordine tiene. Tiene nonostante gli attacchi, nonostante l’odio urlato a pochi centimetri dal casco, nonostante il sospetto mediatico e giudiziario che li dipinge come problema e non come argine. Tiene perché dietro una linea di blindati ci sono persone che prendono insulti, sassi e bottiglie al posto di famiglie e bambini. Gente che firma per rischiare la pelle dove altri firmano uno striscione.
Nel campionato della paura, le forze dell’ordine sono l’unica difesa di ciò che resta del calcio civile. Senza quel cuscinetto umano, di cui tutti parlano solo quando qualcosa va storto, migliaia di partite non si giocherebbero più.
Le recenti indagini della Procura di Milano e di altre procure a cui diciamo grazie per l’egregio lavoro svolto e a cui rappresentiamo la nostra più sentita gratitudine hanno tolto l’ultimo alibi romantico: non è “tifo”, è potere.È racket di biglietti, traffici, ricatti alle società, infiltrazioni criminali. Per alcune frange organizzate, la partita è solo un pretesto: il vero business e la vera identità sta nel sottobosco. Chi trasforma il pallone in copertura per denaro e violenza non è “colore”, è un avversario dello Stato.
C’è chi teme che misure ferree “rovinino l’atmosfera”. Ma l’atmosfera è già stata rovinata dai violenti. Una madre o un padre devono poter entrare allo stadio senza dover studiare il calendario come si studia la mappa di un conflitto. Chi ama il calcio non chiede indulgenza: chiede frontiere nette. DASPO automatici per violenza e possesso di armi, sanzioni pesanti alle società che tollerano zone grigie, responsabilità penale piena per chi usa lo sport come scudo.
Non è vero che “non c’è niente da fare”. È vero che non si è fatto tutto ciò che si può in tanti anni. La tecnologia, le leggi, le inchieste e gli strumenti ci sono: manca solo la decisione di mettere la linea del diritto davanti a quella del tifo. Finché resterà spazio per l’ambiguità, continueremo a piangere agenti feriti o addirittura uccisi, a chiudere tribunali in emergenza e a rinunciare al diritto più semplice: portare un figlio a vedere un gioco. Il calcio sopravvive perché qualcuno lo difende mentre altri lo devastano. A quei difensori spesso invisibili, spesso odiati, quasi mai ringraziati va riconosciuto il merito civile di aver tenuto insieme ciò che molti avrebbero già fatto crollare.
Il resto dipende da una sola domanda, che non ammette mezze risposte: vogliamo ancora uno stadio in cui i bambini cantano o uno in cui la polizia fa da bersaglio? La legge ha già la risposta.