Piazza in fiamme: quando la protesta smette di essere pacifica

Piazza in fiamme: quando la protesta smette di essere pacifica
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Le piazze d’Occidente si infiammano. Da Roma a Parigi, da Londra a Berlino, fino a New York, si moltiplicano manifestazioni che si presentano come cortei “pro-Palestina” ma che sempre più spesso degenerano in scontri, aggressioni e atti di violenza urbana. Non si tratta delle marce per la pace che molti si aspettano: molte sono proteste che assumono i contorni della guerriglia, organizzate e sistematiche, in cui la rabbia prevale sulla rivendicazione politica.
Dietro striscioni e slogan di solidarietà, ciò che emerge è una miscela esplosiva: gruppi di giovani, talvolta cresciuti nei nostri quartieri ma distanti dalla cultura democratica che li ospita, trasformano la protesta in un’occasione di scontro. La rabbia non si dirige soltanto contro Israele o il conflitto mediorientale: si allarga a polizia, istituzioni, simboli dello Stato. È una forma di rifiuto, un “noi contro voi” che non conosce confini politici ma assume il linguaggio dell’odio.

Questi fenomeni impongono una riflessione scomoda: il modello di integrazione promosso in Europa negli ultimi decenni ha davvero funzionato? Le seconde generazioni, teoricamente il ponte tra culture diverse, in troppi casi sembrano percepire più un senso di estraneità che di appartenenza. E quando il disagio si unisce a ideologie radicali, la piazza diventa il teatro di uno scontro che ha poco a che vedere con il pacifismo e molto con la contestazione del sistema Non sono fenomeni casuali. In prima fila, non di rado, si trovano giovani nati o cresciuti in Europa figli e nipoti dell’immigrazione che assorbono una visione di mondo in cui l’Occidente è identificato con l’aggressore. Questa doppia eredità radici culturali lontane e vita quotidiana nelle metropoli europee diventa terreno fertile per la radicalizzazione: un percorso che, in casi estremi, approda al terrorismo islamico e alla lotta contro lo “Stato infedele”.

In queste manifestazioni, il richiamo alla violenza non è più velato: si agitano sigle, simboli e linguaggi che rimandano anche a ideologie jihadiste, che esaltano lo scontro e il martirio. È una forma rinnovata di guerriglia urbana, dove il diritto di manifestare diviene spesso la copertura per attacchi alle forze dell’ordine, ai simboli delle
Istituzioni pubbliche, alle infrastrutture civili.
Abbiamo il dovere di distinguere nettamente tra le proteste legittime e chi sistematicamente le devia verso la logica del terrore. Difendere la libertà di espressione non significa tollerare che le piazze diventino basi operative per chi vuole rovesciare l’ordine democratico.

È qui che si gioca la partita decisiva. Il diritto a manifestare è un pilastro della democrazia, ma quando la protesta diventa violenza organizzata, quando il corteo si trasforma in attacco a istituzioni e cittadini, non si tratta più di libertà: è un pericolo per la convivenza civile. Chiudere gli occhi significa permettere che una minoranza radicalizzata condizioni la sicurezza e i valori di intere comunità.

La risposta non può limitarsi alla repressione. Serve fermezza applicare la legge senza esitazioni contro chi trasforma la piazza in campo di battaglia ma anche visione. Difendere la nostra identità, i nostri valori, la nostra libertà significa anche rafforzare i percorsi di integrazione che funzionano davvero, quelli che costruiscono cittadinanza e responsabilità. Altrimenti si rischia di alimentare ulteriormente quel sentimento di rancore che si riversa nelle strade.

La domanda che resta sospesa è semplice quanto urgente: fino a quando l’Occidente continuerà a chiudere gli occhi? La vera sfida è trovare il

coraggio di difendere con chiarezza il nostro modello di vita, senza cedere né all’indifferenza né alla paura. Solo così le piazze potranno tornare a essere luogo di confronto legittimo e sacrosanto e non di scontro.

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