Nella fabbrica delle stelle. Così nasce il culto degli chef

Dietro le quinte della guida Michelin, che fa le fortune (e le disgrazie) dei ristoranti di tutto il mondo

Nella fabbrica delle stelle. Così nasce il culto degli chef

Le stelle sono tante, milioni di milioni, ma solo quelle Michelin contano davvero. Il «macaron» elargito con parsimonia dalla mitologica guida rossa, nata agli albori della motorizzazione di massa per segnalare dove riparare l'auto (e cambiare le gomme) durante un viaggio e passata nel giro di decenni a segnare fortune e disgrazie dei ristoranti di mezzo mondo, è il sogno di ogni chef. Anche, credeteci, di quelli che dicono di non curarsene (bugiardi).

Ma come vengono assegnate le stelle? Quali sono i criteri seguiti? Sono equi? Variano da Paese a Paese? Incominciamo col dire che gli ispettori della «rossa» sono coperti da un rigido anonimato. Si sa che sono dipendenti della stessa Michelin, che non guadagnano granché (ma sono spesati per i viaggi, i pasti e l'ospitalità), che sono meno di un centinaio e che dovendo alternarsi su 40mila ristoranti di 24 Paesi in tre continenti, devono visitare centinaia di ristoranti all'anno, una vita gastroinsostenibile e quindi solo apparentemente invidiabile. «Ci sono due prove tavola, a pranzo e a cena - racconta uno di loro sul sito della Michelin - che si concludono sempre con un resoconto scritto. Facciamo anche molta ricerca sul territorio (...). Infine, quando siamo in ufficio, ci confrontiamo con gli altri ispettori e con le redazioni, per fare il punto sulle settimane trascorse sul campo, e prepariamo i viaggi futuri».

La solitudine dell'ispettore. È vero che, come tengono a specificare da Clermont-Ferrand, la decisione sulle stelle è collegiale, ma il tapino viaggia di continuo, pranza e cena ogni giorno da solo, non si dichiara né si fa riconoscere (anche se alcuni ristoratori sono convinti di saperlo individuare infallibilmente), dà pochissima confidenza, paga il conto senza fiatare e, con la bocca ancora impastata di limoncello, trascrive le impressioni sulla sua esperienza perché dopo poche ore riapre un nuovo menu. L'insegna viene valutata secondo una griglia rigida che prevede questi criteri: qualità dei prodotti, tecnica culinaria, equilibrio tra gli ingredienti, personalità dello chef, rapporto qualità/prezzo, costanza di rendimento.

Ma lui, il (re)censore, come garantisce la sua competenza e indipendenza? Deve avere studi preferibilmente alberghieri, esperienza di almeno dieci anni nel settore, competenza culinaria e giornalistica, essere autorevole, affidabile, riservato, credibile, parlare bene inglese, e non soffrire la probabile mancanza di una famiglia. Praticamente un sociopatico. Ben nutrito ma pur sempre sociopatico.

La guida Michelin è l'unica grande istituzione mondiale a non rendere noti i meccanismi che forgiano i suoi giudizi né da chi siano formulati. Ciò che alimenta ogni anno dubbi e polemiche che vengono derubricate dai vertici della «rossa» e dai suoi ammiratori come sfoghi dei «rosiconi» che sognano di potersi appuntare sulla giacca bianca quella medaglietta e non riescono a raggiungerla. In Italia ad esempio le critiche più frequenti alla «guida dei gommisti» sono le seguenti: che sia troppo severa con l'Italia che ha solo 12 tristellati mentre la sola Parigi 9; che i suoi standard siano troppo francesi e poco generosi con i format alternativi; che quindi nel nostro Paese non tenga in considerazione pizzerie e trattorie di qualità mentre ad esempio, in Estremo Oriente, ci sono spartani «noodles bar» che vantano la prestigiosa placca rossa; che sia vendicativa (gira voce che un ottimo chef che lavora a Milano, certamente più bravo e creativo di molti stellati, non riceverà mai più il macaron perché anni fa, quando lavorava in un altro locale, lo abbandonò poco dopo averla conquistata senza avvertire i «franzosi»); che al contrario alcuni ristoranti un po' impolverati ma ossequiosi della «rossa» la stella ce l'abbiano ad honorem.

Ma entrare nel Gotha della ristorazione quanto vale? Guadagnare una stella vuol dire incrementare del 50 per cento il proprio fatturato. Bello, bellissimo. Ma da quel momento sei condannato all'ansia tragica di poterla perdere, perché se questo accade il danno economico sarà molto superiore al vantaggio di essere stato nel Gotha, avendo nel frattempo fatto investimenti, aumentato gli stipendi, adeguato il tuo locale a uno standard superiore. Ogni tanto, infatti, qualche chef declassato si ritira, va in depressione, si suicida. «Gli stellati - dice Valerio Massimo Visintin, autore del libro Dietro le stelle (Mondadori), che intervisto qui sotto - sono, in generale, aziende destinate ad andare in passivo: incassano come utilitarie e consumano come fuoriserie».

E sono costretti ad alimentare una creatività «che non è - continua Visintin - una risorsa inestinguibile, pronta all'uso».

Eppure la Michelin detta legge e trasforma ogni chef che raggiunge la stella nel Marchese del Grillo: «Io so' io e voi nun siete un ca**o». Le stelle sono tante, milioni di milioni. Ma mai abbastanza.

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