Nome GUIDO

di Camillo Langone

Forse il miglior ristorante della riviera romagnola, di sicuro non la miglior località della riviera romagnola: Miramare di Rimini ha un nome da cartolina ma è meglio non guardarla altrimenti passa la voglia di fermarsi e si tira dritto fino a Riccione. È una maledetta regola italiana: se il panorama è ridente il piatto fa piangere, e viceversa. Le eccezioni esistono, grazie a Dio, purtroppo sono poche e quasi mai marine perché il mare, si sa, è turismo, e dove c'è turismo meglio lasciare ogni speranza. Guido Guiducci era un romagnolo di collina che nel 1946, mentre gli italiani si dilaniavano come loro solito fra opposte fazioni politiche (in quel momento tra monarchici e repubblicani), pensò bene di lasciare il paesello e aprire un chiosco sulla spiaggia, una semplice baracca di legno dove servire bibite e granite. Con lo speciale rastrello che in dialetto (per via del movimento a cui obbliga l'operatore) si dice «smenacul», cominciò a pescare vongole a due passi dal bagnasciuga onde condire qualche piatto da proporre ai primi turisti. Oggi si parlerebbe di chilometro zero, che purtroppo quasi mai è chilometro vero: a Trani, in Puglia, nella carta di un ristorante km 0 l'Incontentabile ha letto costernato di un risotto allo champagne... Tra Anni Quaranta e Anni Cinquanta, fra De Gasperi e Fanfani, tra Rossellini e Fellini, non esisteva il nome ma esisteva la cosa e questo significa che a Rimini la materia prima veniva prelevata a meno di cento metri dai fornelli: beati quegli antichi clienti! Beati anche i clienti di oggi perché, a quasi settant'anni dagli esordi, ecco i nipoti Luca e Gian Paolo assisi nell'olimpo dell'alta ristorazione regionale. Commuove che i due fratelli siano rimasti fedeli sia all'insegna che all'indirizzo. Chissà quante volte avranno pensato di trasferirsi: da Guido si possono spendere anche solo 60 euri (non poco in assoluto ma poco in relazione all'eccellenza della cucina) eppure con Miramare questo mirabile ristorante non sembra c'entrare nulla. Ed è sempre stato così: il bolognese che «trascorreva le vacanze in località dai nomi modesti tipo Miramare, Igea Marina, Lido Adriano o Pinarella» racconta il bolognesologo Danilo Masotti «apparteneva al ceto medio o forse anche a qualcosa di meno». Oggi la situazione sembra perfino peggiorata e sul lungomare sfilano i pullman del cosiddetto turismo sociale, sai che allegria. La storia di Guido ricorda quella del più celebrato Pescatore di Canneto sull'Oglio, altro locale molto rustico e con fondatore dedito alla pesca che nel giro di pochi decenni è divenuto molto raffinato senza però tradire le proprie origini, ossia i propri ingredienti. Che in Lungomare Spadazzi 12 sono il cefalo, la seppia, lo squacquerone, i cannelli (ossia i cannolicchi), la pasta fresca e le poveracce (ossia le vongole). Ce ne sono molti altri, chiaro, ma questi valgono il viaggio. Il cefalo è un pesce di nascita poco nobile e perciò l'Incontentabile di solito preferisce lasciarlo al gatto, solo Gian Paolo Raschi (il fratello in cucina mentre Luca è il fratello in sala) riesce a sublimarlo confezionandolo sotto forma di carpaccio. Insomma il cefalo migliore di sempre. Seppia e squacquerone sono ingredienti romagnoli del tutto tradizionali ma nuovo è l'abbinamento, in teoria rischioso e in pratica riuscitissimo. La seppia è tagliata sottile e lo squacquerone, più liquido di uno stracchino, proviene dalla vicina San Patrignano. Sono lecite opinioni diverse sulla famosa comunità di recupero e sulla famosa famiglia che la dirige (i Moratti) ma si può avere un'opinione sola sui formaggi del caseificio interno: un'opinione favorevolissima. I cannelli, che pochi ristoranti di livello hanno il coraggio di mettere in carta considerandoli erroneamente troppo umili, sono di carne tonica, impreziositi dal caviale bresciano di Calvisius. Vertice della cena (come pure del pranzo: l'Incontentabile ha provato Guido due volte) sono i cappelletti con le poveracce, pasta fresca ripiena di vongole che merita applauso e bis. Se il mangiare (perfino i dolci, croce di tanti cuochi) è ineccepibile, il bere non lo è altrettanto: il Pagadebit, bianco scelto per il simpatico nome vernacolare, si vanta di una «permanenza per alcuni mesi a contatto con le fecce nobili» ma visto il risultato forse era meglio evitarlo, questo benedetto contatto, e comunque i vini troppo naturali stanno cominciando a stufare; il distillato di albicocche, prodotto da Reinhold Messner a Castel Juval, viene servito a temperatura ambiente e in una serata di afa estiva questo significa che viene servito caldo, ohibò. Da Guido bisognerà tornarci in autunno quando Miramare sarà deserta e nessun rumore molesto disturberà la degustazione di piatti squisiti che esaltano la Romagna del passato, del presente e del futuro. (A proposito di rumore: l'Incontentabile ha chiesto ragione della mancanza di barriere fonoassorbenti e Luca Raschi ha risposto che avevano messo a dimora una fila di piante ma lo stesso Comune capace di approvare la colata di cemento del lungomare li ha multati per siepe non autorizzata.

Povera Italia).

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