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Non è la fine della Storia. Semmai la fine dell'Occidente

Il grande abbaglio è sempre più evidente. E la presunta superiorità sul resto del mondo si rivela autolesionista...

Non è la fine della Storia. Semmai la fine dell'Occidente

Nella «fine della storia», che contempla «il fine della storia», ma si conclude con «la storia della fine» c'è molto di più di un gioco di parole più o meno elegante o più o meno noioso. C'è il prendere atto di un abbaglio di fine secolo, il XX, e del brusco risveglio che il nuovo secolo, quello ancora relativamente giovane, ma già sottoposto a usura, ha comportato, e con esso la constatazione non solo che la storia non è finita e tanto meno che procede in progressione verso uno scopo ultimo quanto universale di pace democratica realizzata, ma anche che è proprio il canone occidentale interpretativo a non reggere più.

Come spiega bene Lucio Caracciolo nel suo La pace è finita (Feltrinelli, pagg. 140, euro 16), «l'ideologia che fissa un termine alla progressione della storia umana è smaccatamente occidentale. Proprio perché occidental-illuminista tale filosofia non può che pretendersi universale. Contraddizione che la rende inapplicabile, a meno di non postulare la progressiva identificazione del Resto del Mondo con l'Occidente. Operazione anche demograficamente improbabile oggi, quando noi occidentali (europei e nordamericani) siamo circa un miliardo contro i sette di non occidentali, mediamente più giovani e in aumento vertiginoso, specie in Africa. Sicché ogni buon missionario della fine della storia dovrebbe convertire sette non occidentali alla sua fede. E al suo impero».

Già, perché la fine della storia implicava di per sé il trionfo dell'impero americano che in essa si incarnava, sublimato in ordine ecumenico. La sua rimessa in discussione a livello egemonico non comporta, naturalmente, il suo venir meno quanto a rango di superpotenza o, se si vuole, di prima potenza mondiale, ma, e non è un paradosso, contribuisce, come scrive Caracciolo, a svelare «il bluff europeista, che ci aveva traslato nell'ipnotico universo della pace assicurata, non è chiaro da chi e cosa». Crolla insomma l'illusorio castello di carte in cui l'Europa si voleva vedere come potenza civile, con tanto di tonalità universalistica, che però si offriva al mondo «via Nato, come secondo braccio dell'Occidente a guida americana, equilibrato dalla saggezza dell'antica civiltà vetero-continentale. Oggi il principio europeistico di irrealtà stenta a mascherare la tragica condizione geopolitica in cui noi europei ci troviamo. Siamo fuori gioco. Oggetto di giochi altrui».

Se dunque la pace è finita, come recita il titolo del saggio di Caracciolo, autore tanto più significativo se si pensa che si deve a lui, grazie alla sua rivista Limes, l'aver riportato al centro del dibattito scientifico-culturale quel concetto di «geopolitica» disinvoltamente silenziato nel nome e al tempo dell'astrattismo universale, ne consegue, come osserva un altro analista di vaglia, Alessandro Colombo, che quello che viene a configurarsi è proprio l'opposto di ciò che la fine della storia pretendeva di realizzare, ovvero una fine della storia di senso contrario, dove a essere universale non è la pace, ma l'emergenza. Il governo mondiale dell'emergenza (Raffaello Cortina, pagg. 221, euro 19) si intitola infatti il suo libro e «Dall'apoteosi della sicurezza all'epidemia dell'insicurezza» è il sottotitolo che l'accompagna, una frustrazione securitaria subentrata alla promessa liberale di pace, benessere e tranquillità a livello globale. La prima domanda che ragionevolmente viene da porsi è perché quell'ordine liberale che portava con sé la fine della storia sia entrato in crisi. Le risposte che ne rintracciano i motivi in qualche «tradimento» interno e/o esterno del progetto risultano parziali, allo stesso modo di come si imputata la crisi delle democrazie rappresentative ai «populismi» che le minacciano, come se questi fossero la causa e non l'effetto della crisi stessa. Come scrive Colombo, «ciò che non viene mai preso in considerazione è la possibilità che l'ordine liberale sia entrato in crisi per le sue stesse contraddizioni interne: di più, che la crisi del progetto liberale possa non essere altro che un prodotto del suo stesso successo». Colombo suggerisce al riguardo più di un indizio: per esempio, il ricorso «sempre più irresponsabile all'uso della forza», culminato nelle disastrose imprese militari in Iraq, Afghanistan e Libia; per esempio, «il rapporto storicamente ripetitivo tra finanziarizzazione dell'economia e aumento delle diseguaglianze»; per esempio, «le sospettose coincidenze tra il ritiro dei diritti sociali distribuiti nel corso del Novecento e il rifluire dello spettro della rivoluzione». Soprattutto però, e questo lega strettamente l'analisi di Colombo a quella di Caracciolo, tanto che i due libri possono essere letti come un unicum, quella crisi è insita proprio nell'idea di modernità occidentale che ne è il supporto, per certi versi «l'ultima (e, forse, la decisiva) manifestazione del ruolo occidentale di centro di irradiazione di istituzioni, linguaggi e relazioni di potere».

Detto in altri termini, la lettura di un possibile Nuovo ordine mondiale come la più completa manifestazione di un grande progetto di riordino della vita internazionale risalente alla metà del Novecento, se non addirittura al suo inizio, fa acqua proprio nei suoi presupposti. Il Novecento infatti è stato ben altro. Innanzitutto, è stato «il secolo della fine della centralità dell'Europa e più in generale del riflusso dell'impeto occidentale sul mondo», una «rivolta contro l'Occidente» approdata agli sconvolgimenti della decolonizzazione e di fatto non ancora esauriti nel loro intrecciarsi con le contraddizioni del potere su scala internazionale. Sicché viene da chiedersi se il XX secolo non segni proprio «la fine della fase occidentale della storia del mondo» e quindi in prospettiva dello scontro, di segno quasi perfettamente opposto, tra la marea montante dei grandi Paesi non occidentali in ascesa e «un Occidente sempre più rinchiuso nella postura strategica e persino nell'attitudine psicologica dell'assedio».

Che in questo Occidente in vena di esaurimento quanto a supremazia, l'Europa sia una semplice appendice, è la chiave di volta, ne abbiamo già accennato, dell'analisi di Caracciolo, che ne dà però una lettura controcorrente rispetto al mainstream dello stesso pensiero occidentale. «Non solo il soggetto Europa non esiste né appare alla vista, ma l'organizzazione dello spazio europeo è ispirato al principio di impedire che si formi. Perché è questo l'interesse degli Stati Uniti d'America: un continente stabile, ma non troppo, da loro strategicamente dipendente». L'Europa per come è venuta a identificarsi, è in fondo un prodotto dell'europeismo americano. In senso geopolitico, perché la incardina oltreoceano impedendole di essere un contropotere. In senso ideologico, in quanto sostiene un europeismo europeo «incapace di unire gli europei», ma «utile per pacificarli, adagiarli nel declassamento inevitabile dopo aver perso due guerre mondiali. Parcheggiandoli nella post-storia».

Tre generazioni dopo l'invenzione del «progetto europeo», è l'amara conclusione di Caracciolo, «quello che avrebbe dovuto evolvere la nostra potenza decaduta in un soggetto geopolitico unitario, constatiamo di essere oggetti di attori e di dinamiche che ci trascendono. E oppongono gli uni agli altri. Niente di straordinario. Storie ordinarie, anzi, che riempiono il vuoto dell'europeistica fine della storia, talmente eccezionale da non appartenere a questo mondo».

Ciò che resta sullo sfondo è la mobilitazione delle frasi fatte, ovvero la chiamata alle armi, settant'anni dopo, come scrive Colombo, «non soltanto ovunque contro lo stesso nemico, ma addirittura contro lo stesso di sempre - il fanatismo, il fascismo (islamico o di Vladimir Putin), le autocrazie, espressione di una indifferenza senza limiti alle specificità storiche e culturali, oltre che di una vocazione narcisistica a interpretare qualunque vicenda storica e politica come proiezione della propria». Da una promessa irrealistica di sicurezza, la parabola dell'ascesa e declino dell'ordine liberale si è concretizzata in una percezione esagerata dell'insicurezza. Ma era proprio «la vacanza liberale dal pericolo», e dalla storia stessa sentita come pericolo, a essere un'anomalia. Ed è a questa anomalia che dobbiamo l'estremo paradosso del nuovo secolo, ovvero la trasformazione di una propensione dichiaratamente pacifica alla sicurezza in una bellicosa disponibilità alla mobilitazione permanente. Come aveva detto, prefigurando il futuro, Carl Schmitt, la guerra dietro l'apparenza della pace si trasforma in «un provvedimento pacifico accompagnato da battaglie di più o meno grande portata»..

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