Io, l'AI e Elton John: una riflessione sulla legge approvata nel Regno Unito

La vera minaccia dell’AI non è la fine dell’arte, ma il nostro abbraccio passivo a un’estetica piatta, algoritmica, standardizzata. Non è l’AI che cancella il talento. Siamo noi a smettere di cercarlo

Io, l'AI e Elton John: una riflessione sulla legge approvata nel Regno Unito

Confesso che ogni volta che leggo di artisti che si indignano per l’intelligenza artificiale, ho una reazione ambigua, da una parte li capisco: l’idea che un algoritmo possa campionare, rimescolare e produrre qualcosa che somiglia a una canzone, a una voce o a una “sensazione”, ha in sé un che di inquietante, specie se sei cresciuto credendo che l’arte fosse un gesto irripetibile. Dall’altra parte però mi viene da chiedere: davvero credete possa esistere una macchina che “ruba” qualcosa che non è nel file ma nel risultato o solo nell’effetto che produce su chi ascolta o legge? E che l’effetto sia indipendente da ciò che c’è dietro (o davanti, se su un palco o su uno schermo)?

Scrivo questo perché ieri, nel Regno Unito, è stata approvata in via definitiva la legge chiamata Data Use and Access Bill, che consente (tra le altre cose) di usare testi, immagini, voci, opere artistiche per addestrare modelli di intelligenza artificiale, senza dover nemmeno doverlo dichiarare, senza chiedere il permesso a chi quelle opere le ha create, e nonostante le proteste di oltre quattrocento artisti (tra cui Elton John, Paul McCartney, Dua Lipa, Kate Bush) la parte del provvedimento che avrebbe garantito trasparenza è stata cancellata. Elton John (e compagnia cantante), va da sé, è andato su tutte le furie.

E qui, ammetto, ho un problema: se da un lato trovo inaccettabile l’idea che chiunque possa campionare Elton John per sfornare un “Fake Rocket Man” con una voce sintetica, dall’altro continuo a chiedermi se l’arte vera sia davvero replicabile, o meglio, se possa essere danneggiata. Oltretutto una violazione del copyright resta in ogni caso, come nel caso di Disney che ha portato in causa Midjourney (ne ho scritto qui).

Insomma, ragazzi, oggi l’AI la usano già in tanti, e non per rubare a Elton John, piuttosto per produrre tonnellate di pseudo-arte, gente che non sa cantare né comporre e si affida ai generatori di testi e all’autotune, gente che non sa scrivere e chiede a un prompt di “creare poesia”, gente che non crea niente e ricombina ciò che esiste: è un fenomeno che somiglia più al karaoke universale che all’apocalisse del talento. Come sulla Guida galattica per autostoppisti direi: DON’T PANIC.

E lo stesso vale per i video generati con l’AI, quei clip iper smooth tanto più realistici quanto più finti quanto più assurdi quanto più boh dove una ragazza cammina al rallentatore sotto la pioggia fluorescente o un samurai fuma davanti a un tramonto neon, ogni settimana esce una nuova demo “rivoluzionaria”, ogni giorno c’è qualcuno che posta la “sigla di un anime mai esistito” con migliaia di commenti in caps lock, tutto uguale. Sembrano pieni di fantasia e in realtà non fanno altro che mostrare la mancanza di fantasia persino di chi usa l’AI, perché per quanto possano essere ultra definiti, cinematici, drammatici, surreali (chiedo scusa a André Breton), sono sempre le stesse due o tre atmosfere riciclate: tramonto più nebbia più nostalgia da stock più animali ibridati più fantasy, a me fanno sbadigliare, letteralmente, versioni lucidate di cose già viste e straviste, ricombinate con un’estetica che fa sdilinquire solo chi di arte non capisce niente.

È come panna montata sopra la panna montata sopra la panna montata, come se ogni immagine fosse fatta per compiacere una retina assuefatta allo zucchero visivo, incapace di digerire qualcosa di più denso o disturbante. Tra l’altro, siccome sono sempre stato in anticipo sui tempi (ero già lì a dire che gli NFT erano fuffa ben prima che se ne accorgesse anche il TG1, e soprattutto ben prima che il volume di trading della sola categoria “Art NFT” crollasse del 93%, da 2,9 miliardi di dollari nel 2021 a soli 23,8 milioni nel primo trimestre del 2025) sono pronto a scommettere che presto inizieranno a sbadigliare tutti.

C’è una cosa che dice Bill Gates e che sottoscrivo (sottoscrivo spesso quello che dice Bill Gates, lo so): “non vorremmo vedere robot che giocano a tennis”, un modo per ricordarci che ci sono ancora sfere dove la presenza umana, il “non previsto”, il non standard diventa l’unica attrattiva. Se l’arte diventasse domani uno spettacolo di standardizzazione spinta, un barocchissimo profluvio digitale privo di rottura e di contrasto, saremmo noi a spegnerne la suggestione poiché non è quel flusso a reggere il senso, è la frattura.

Intanto, mentre il pubblico applaude il prossimo video generato da Runway, i veri registi giocano la partita opposta: Nolan, già da Dunkirk, ha ridotto al minimo la CGI preferendo effetti pratici, e in Oppenheimer ha girato persino la sequenza dell’esplosione nucleare senza computer grafica (ricostruendo perfino Los Alamos, e Villeneuve, in Dune, ha scelto ambienti reali, sabbia vera, corpi veri, Gerwig ha preferito teatrini e miniature, e serie più artistiche come The Studio fanno ampio uso di piani sequenza. Mentre l’eccesso di CGI ha reso i film Marvel sempre più indistinguibili e indigeribili polpettoni di effetti speciali.

Per carità, capisco anche Elton John, non perché la sua voce debba essere protetta in quanto sacra, piuttosto perché rivendica una funzione precisa, quella di essere l’origine, eppure, ripeto, Disney insegna: copi? AI o non AI ti faccio causa.

Si teme che l’AI cancelli l’arte, che la ottimizzi al punto da svuotarla, che nel frattempo noi ci abituiamo a un’idea di creatività che somiglia più a una performance algoritmica che a una ricerca o a un colpo di genio, più a un’imitazione ben confezionata che a un errore autentico, più a un riassunto ottimizzato per la soglia d’attenzione di un criceto social che a una frustrazione necessaria?

Spero di no, comunque sia se succederà, non sarà colpa dell’AI, sarà colpa nostra. O meglio, sarà semplicemente l’evoluzione naturale di una specie che ha preferito diventare deficiente piuttosto che intelligente.

Come quei cantanti moderni, rapper e trapper, che senza autotune si ritrovano improvvisamente muti sul palco (non faccio nomi, anche perché sono troppi), e solo allora si scopre che dietro l’effetto non c’era voce né un artista, solo l’effetto.

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