La cultura del piagnisteo è sempre stata di sinistra, un percuotersi il petto gemendo sui mali del mondo e sul destino cinico e baro che la obbligava a stare all’opposizione. Finito di piangere, l’intellettuale che la rappresentava passava alla cassa, ritirava lo stipendio, andava al mare e qui si chiudeva nella sua villetta per evitare che il popolo sudato gli offendesse le narici. Lo amava, ma non ne sopportava l’odore.
Poi è crollato il Muro di Berlino e insomma si è chiusa un’epoca: quell’intellettuale è sopravvissuto, certo, nessuno gli ha toccato la villetta e lo stipendio, è oggi una figura più ridicola che drammatica, magari non innocua, detentrice ancora di un potere, come no, ma anche lui deve pur mangiare...
Così, da qualche anno a questa parte la «cultura del piagnisteo» è passata a destra, con tutte le geremiadi relative al tema della sua sofferta minorità intellettuale e dell’ostracismo verso chi l’ha incarnata e l’incarna. Ora, ogni volta che questo argomento torna alla ribalta, a me viene voglia di mettere mano al revolver che non ho. Perché è una vecchia musica, ascoltata sino alla nausea. Dieci anni fa scrissi un pamphlet che si chiamava Per farla finita con la destra e mi misi l’anima in pace.
Questo spiega perché il dover ora parlare di un saggio come Il tabù della destra mi mette in difficoltà. Che fare?
Proviamo a fare un passo indietro. Trent’anni fa, quando la destra era strumentalmente sinonimo di fascismo, era oggettivamente difficile articolare un progetto culturale su un terreno saldamente in mano avversaria. C’era allora una cultura minoritaria, emarginata. Chi la negava lo faceva per meglio legittimare l’egemonia di segno opposto. Di contro, chi l’affermava, lo faceva all’interno di un fortino assediato. Però e purtroppo, al vento della contestazione e del cambiamento la destra del tempo rispondeva facendo quadrato sui princìpi e sul passato, in un’ottica nobile quanto sterile. Ci sarebbe voluto un atto creativo che permettesse la fuoriuscita da quel fortino, rimettesse in discussione l’idea di una destra conservatrice nella sua accezione più nobile, qualunquista in quella più volgare e, addirittura, le stesse categorie classiche di Destra e di Sinistra. Ma questa è un’altra storia e un altro articolo.
Trent’anni dopo, e per tornare a noi, gli interrogativi di allora sono solo apparentemente gli stessi, perché c’è stata una destra di governo, perché la parola destra è stata sdoganata, e insomma il far finta che si sia ancora demonizzati e/o nel ghetto, fa un po’ ridere. Ovvero piangere.
C’è di più. Un quindicennio di bipolarismo e due governi di centrodestra non hanno tuttavia mai significato per quest’ultima un’analisi delle proprie mancanze, ma sempre uno scaricare sull’avversario ogni colpa. Piagnisteo, anche qui. Inoltre, sia nel 1994 sia nel 2001, l’alleanza di centro-destra si convinse di aver vinto il duello con il centro-sinistra senza aver avuto bisogno di un progetto ideologico-culturale che la radicasse sul terreno della società civile. Si pensò che ciò che non era stato necessario prima non lo fosse neppure dopo: era sufficiente l’appeal cesaristico dei suoi leader, l’occupazione di determinati posti di potere, l’uso accorto di ministeri chiave per garantirsi un futuro. Stando così le cose, la cultura resta per quel mondo nel migliore dei casi un optional, nel peggiore una perdita di tempo.
La cultura del piagnisteo nasce dal fatto che in realtà mai si è parlato e ci si è definiti così tanto di destra, come da quando la destra (e del resto la sinistra) non significa più nulla, è un vuoto. Curiosamente, il saggio di Eric Brunet è curato da Angelo Mellone con una introduzione nella quale si concorda sull’esistenza di questo tabù quasi antropologico.
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